C’è del marcio in Danimarca?

Economia

Rita Castellani – La battuta era irresistibile, dopo il riferimento del Presidente del Consiglio Draghi alla “riforma fiscale danese”, al metodo con cui è stata formulata e al fatto che ha alzato la soglia di esenzione e abbassato l’aliquota massima. Al momento, è sembrato un ammiccamento “a destra”, in stile “riforma Berlusconi” del 2003. Eppure l’accostamento alla riforma Visentin – Cosciani, che introdusse l’IRPEF in Italia negli anni ’70, l’ultima organica e finalizzata secondo le indicazioni costituzionali di questo paese, avrebbe dovuto indurre qualche dubbio.

Intanto, la suddetta riforma risale al 2008, dunque non proprio ieri mattina, e oggi possiamo perciò considerarla come ampiamente sperimentata e consolidata. Vediamo le caratteristiche salienti, con riferimento, ovviamente a dati pre-Covid: la Danimarca vanta il carico fiscale più alto d’Europa con oltre il 46% del PIL (l’Italia è sesta con circa il 42%) che alimenta una spesa pubblica che si attesta intorno al 50% del PIL (in Italia siamo intorno al 49%, di cui, però, quasi il 4% è spesa per interessi), con il debito pubblico intorno al 30%. L’imposizione fiscale sul reddito è progressiva, con una soglia di esenzione comparabile a quella italiana: il carico complessivo sul reddito varia dal 31%-38% al 48-55% (la variabilità delle aliquote dipende dal fatto che una dei tre tipi di imposta contemplati, quella comunale, oscilla, a seconda dei comuni tra il 21 e il 27%), con una discreta progressività, accentuata da sgravi rilevanti sui redditi da lavoro. E (come in tutto il resto del mondo): c’è una” tassa sulla proprietà”, con aliquota dell’1% per patrimoni fino a un equivalente di circa 409.000€ e del 3% per l’eccedenza oltre questa soglia.

No, non proprio il modello Lega. Tuttavia, non è tutt’oro quello che luccica: il tasso di evasione fiscale è secondo in Europa solo a quello italiano (3027€ pro capite rispetto ai 3.156€ nostrani), e questo un po’ ci stupisce: non tanto per motivi antropologici (sono nordici, perciò virtuosi), quanto per motivi demografici, dato che la Danimarca ha poco più degli abitanti del Piemonte o, se preferite, poco meno di quelli della Campania. Ma forse qui qualcosa c’entra il fatto che la Danimarca abbia mantenuto una moneta nazionale (corona danese) e che sia un’economia molto aperta, con un saldo commerciale generalmente positivo: e, si sa, è più difficile controllare se il controvalore dichiarato in entrata corrisponda esattamente al valore delle merci in uscita, se di mezzo ci sono anche i tassi di cambio. Del resto, nonostante l’interscambio con la Cina sia in crescita anche lì, quello con i paesi dell’area euro viaggia tuttora oltre il 30% del totale. E, questo, magari, si avvicina di più al modello Lega.

Dunque, perché il prof. Draghi, come lo chiamano tutti, ha ritenuto utile citare il modello fiscale danese nel suo primo discorso alle Camere?

Credo che una prima risposta possiamo darcela ri-contestualizzando la citazione nell’evoluzione del discorso, dove segue l’affermazione che l’Unione Europea sta già lavorando alla costruzione di un bilancio pubblico, e quindi di una politica fiscale, comune. Ora, conosciamo l’uomo: non è il tipo da perdersi in wishful thinking, così cari alla retorica nazionale. E non ce ne sono stati in un’ora di discorso: magari l’indicazione di tempi di attuazione lunghi, o magari qualche non detto. Il fatto è che la suddetta retorica nazionale naviga spesso in un mare di ignoranza, rispetto a quanto avviene a livello europeo, salvo poi lamentarsene a gran voce quando scopre che al suo interno gli interessi italiani non sono contemplati, per il semplice fatto che nessuno si è preoccupato di proporli e di difenderli al momento opportuno. Se proviamo a mettere insieme l’idea della politica fiscale comune con il riferimento al modello danese (e magari anche a quello nostrano Visentin – Cosciani), viene fuori nient’altro che l’istituzionalizzazione di quello che è alla base delle iniziative dell’era Covid, da Sure a Next Generation UE: green economy, innovazione e ricerca, cultura e welfare finalizzato al riequilibrio sociale.

E ha ragione Draghi: l’Italia non ce la farebbe mai da sola a invertire le tendenze, distruttive da molti punti di vista, consolidate in trent’anni di liberismo globale. E, forse, persino la dimensione europea rischia di non essere sufficiente, se lo stesso orientamento non prevarrà almeno in tutti i paesi dotati di istituzioni democratiche.

fonte: demosfera.com

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *