Oscar Monaco – Quello che comunemente chiamiamo populismo è una tecnica politica, più precisamente una tecnica di disintermediazione: in quanto tale non è mai neutrale, se non in una dimensione talmente astratta da non interessare praticamente nessun aspetto del reale.
Il populismo è il modo in cui si dà la politica nella fase attuale dello sviluppo capitalistico e dei processi di accumulazione, esattamente come le organizzazioni di massa burocratizzate lo sono sono state rispetto al modello taylorista e al capitalismo fordista, e in quanto tecnica non neutrale si manifesta in relazione agli interessi specifici delle classi sociali.
Da questo punto di aveva ragione il filosofo argentino Ernesto Laclau a definire la fase politica contemporanea come “momento populista”: interpretando in maniera stringente questa ipotesi, non è meno populista un esponente dell’establishment finanziario come Mario Draghi di quanto lo sia l’ultimo degli agitatori no vax, non è meno populista la furia tecnocratica rispetto al pensiero magico superstizioso che anima le bizzarre teorie antiscientifiche del disagiato mondo dei vari terrapiattismi. In fondo in ognuno di questi casi si manifesta la tendenza a collegare la propria prospettiva alla legittimazione plebiscitaria di un determinato settore sociale, senza preoccuparsi di dare luogo ad un processo stratificato di accumulazione di consenso, sia essa democratica o di altra natura, nello stesso modo in cui l’accumulazione di ricchezza nell’economia digitale differisce dall’accumulazione tipica della produzione massificata, legata ai ritmi biologici umani, per quanto sfruttati. La chiave di volta è la mutazione di quello che Marx nei Grundrisse definiva come capitale fisso, nella sua disponibilità sociale.
È nella contesa feroce tra populismi che ha a vuto luogo a partire dalla crisi economico finanziaria del 2008, che le èlites tecncocratiche, come in una sorta di proiezione, cominciano a chiamare populismo la loro variante plebea, che prende forma e consensi in Europa con la germinazione di movimenti, orientati di volta in volta a sinistra o a destra, e che crescono negli anni dieci di questo inizio di millennio.
Se in Spagna la direzione politica dei movimenti di contestazione degli Indignados viene abilmente presa da un gruppo dirigente di dichiarata formazione gramsciana, come il gruppo di accademici della facoltà di scienze politiche dell’università di Madrid, che darà vita a Podemos, oltreoceano le periferie statunitensi piombate in misera come conseguenza della ristrutturazione neoliberista, la cosiddetta america profonda, un tempo base di consenso dei democratici, diventa il brodo di coltura di quello che diventerà il trumpismo.
In Italia il primo tentativo organico di costruzione di una soggattività populista avviene avviene con la fondazione del Partito Democratico all’insegna del “maanchiscmo” veltroniano, che tenta di mettere insieme il falco dell’ultradestra confindustriale Massimo Calearo e l’operaio superstite del rogo della Thyssen di Torino Antonio Boccuzzi, la fanatica ultracattolica col cilicio Paola Binetti e l’allora attivista LGBT Ivan Scafarotto: è dal fallimento fragoroso di questo tentativo dopo le politiche classiste a antipopolari attuate nel governo Monti che esplode, dalla delusione di una parte dell’elettorato di centrosinistra, il M5S.
Quel movimento fa i suoi primi passi non casualmente proprio nell’Emilia rossa e si caratterizza inizialmente per un profilo di riformismo radicale, socialmente ed ecologicamente caratterizzato, che concorre apertamente nel campo progressista col PD, arrivando, nel 2009, a tentare di contenderne la leadership con la candidatura del suo fondatore Beppe Grillo. Il protrarsi infinito della crisi e le larghissime intese raccolte e stabilizzate da Renzi, una della variati elitarie del momento populista, fanno da carburante per una crescita del M5S che lo porta a raccogliere voti anche a destra, finché questi non vengono riassorbiti dalla Lega di Salvini durante lo sciagurato governo gialloverde.
Il resto è storia recente: il governo Conte 2, l’alleanza PD-M5S-LEU, i timidi tentativi di rimettere all’ordine del giorno un minimo di intervento pubblico in economia e di Stato sociale, prima del golpe confindustriale che porta al governo Mario Draghi. La prospettiva di un M5S nel Partito Socialista Europeo è il ritorno naturale ad un campo progressista che mira a liberarsi dalla follia neoliberista di cui è stato succube per anni e la premessa per la costruzione in Italia di un soggetto politico di sinistra, socialista e democratico.