L’appello di Angelo d’Orsi per una “costituente della sinistra”

Politica Sinistra

IL PROFESSOR ANGELO D’ORSI, STORICO DEL PENSIERO E DELLA FIGURA DI ANTONIO GRAMSCI, HA LANCIATO UN APPELLO PER UNA “COSTITUENTE DELLA SINISTRA”. LO PUBBLICHIAMO CON L’INVITO A LEGGERLO ATTENTAMENTE E A DIFFONDERLO OVUNQUE POSSIBILE PER SOSTENERE UN CONFRONTO AMPIO SUI TEMI POSTI CHE SONO, A NOSTRO AVVISO, DI ESTREMA IMPORTANZA E DI GRANDE PROFONDITÀ POLITICA, SOCIALE, CULTURALE

Le Elezioni amministrative dell’ottobre 2021 sono state l’ennesima tappa di un percorso di sconfitte della Sinistra, iniziato ormai molti anni or sono.

Ritengo non solo necessario ma inevitabile e urgente avviare una riflessione non rituale. Ci sono tre possibilità: 1) fare una presa d’atto formale, ma proseguire sulla linea di condotta del passato, magari con qualche piccolo aggiustamento; 2) tirare i remi in barca, o appendere la penna al chiodo (o riporre la falce e il martello in soffitta) e aspettare un cambio di stagione; 3) rialzarsi e rimettersi al lavoro, forse non proprio “serenamente” – come insegna Gramsci –, anzi con ansia e forse qualche timore, ma senza esitazioni. Essendo stato protagonista della battaglia (e della sconfitta), nel caso di Torino, o almeno front man, ho avvertito la necessità di affrontare direttamente, e personalmente, i problemi ed esaminare le ragioni della sconfitta, passaggio preliminare per tentare di rispondere alla domanda fondamentale: che fare, ora?

Le ragioni della sconfitta, se sviscerate a fondo, possono essere altrettanti insegnamenti. E non tenerne conto, sarebbe suicida. Questa nuova battuta d’arresto, una volta superato lo smarrimento, ci obbliga ad uno sforzo di sincerità, ma anche di immaginazione. Almeno io sento di doverlo fare.

Questa lettera aperta vuol essere uno stimolo per avviare un processo costituente che possa favorire una rinascita della Sinistra, ma non è certo una pretenziosa autocandidatura, ma semplicemente una dichiarazione di disponibilità a fare questo percorso con chi ne vedrà, con me, la necessità e l’urgenza. L’esperienza elettorale di Torino mi ha insegnato molto, nel bene e nel male. E questo bagaglio vorrei in certo modo mettere a disposizione del “popolo della Sinistra”.

La situazione politica italiana sembra senza sbocchi, incastrata fra la pandemia e un governo di tecnocrati di  modesto valore (nel migliore dei casi), e da politici di lungo o medio corso, di pessima fama (ci siamo ritrovati fra i piedi personaggi come Brunetta e la Gelmini!): un governo di destra, a cui inutilmente PD e M5S tentano di apporre etichette emergenziali per far più agevolmente accogliere politiche di aggressione alle classi meno abbienti, di “riforme” imposte dalla UE e dal FMI, mentre la popolazione è così duramente provata dal Covid, e dalle misure spesso pasticciate, contraddittorie e spesso di dubbia efficacia messe in essere per contrastarlo.

E nessun provvedimento serio viene adottato per rimediare alla catastrofe sanitaria, effetto della regionalizzazione, della privatizzazione e dell’aziendalizzazione. Un governo di destra, non legittimato da un voto, come del resto i precedenti, che sembra semplicemente istituito per gestire una politica antipopolare, sotto una falsa vernice di modernizzazione e di tecnicizzazione.

E che nello strombazzato consenso della UE (una istituzione che andrebbe messa totalmente, radicalmente in discussione), mette a punto provvedimenti economici, sociali e ambientali che non vogliono toccare gli interessi dei gruppi dominanti, cambiare il modello di sviluppo, invertire il senso della produzione e le sue logiche, arrivando davvero a una economia “green”, e avvicinarsi a una pur minima equità fiscale.

Basti pensare all’ultima trovata del Parlamento dell’Unione: ricuperare tra le fonti “green” il nucleare e il gas! Un governo, che, sottospecie di unità nazionale anti-virus, sembra indirizzare le proprie scelte e agire contro tutti i ceti subalterni, vecchi e nuovi, ossia quelli messi in ginocchio dal Covid e dalle misure restrittive per contrastarlo.

La difficoltà di larga parte della popolazione si fa sentire, quotidianamente, con l’aumento della disoccupazione e gli astronomici rincari di beni di prima necessità e soprattutto dei costi dei servizi, del carburante, e di tutte le utenze legate all’energia, e alle carenze del servizio sanitario, a cui non si pone rimedio.

Mentre, per converso, si prosegue nella scellerata politica delle “Grandi Opere”, Tav in testa (ma si ritorna persino a parlare del Ponte sullo Stretto!): opere tanto inutili sul piano della viabilità, quanto dannose per il territorio, e costosissime per il bilancio pubblico. Tutto ciò non può che produrre disaffezione alla cosa pubblica (le ultime elezioni hanno visto un tasso di astensione che ha raggiunto punte intorno al 60%, e questo ha penalizzato specialmente noi esponenti di forze di Sinistra: a Torino le periferie proletarie e sottoproletarie non sono andate alle urne o hanno votato a destra) e produce disincanto, rancore, rabbia.

La rabbia si può tramutare in politica? La rabbia storicamente è stata più volte un fattore propulsivo, ma abbandonata a sé stessa, si traduce nella mera protesta distruggitrice, con conseguente repressione, e inevitabilmente – questo mi pare l’insegnamento della storia – riduzione degli spazi di agibilità politica per quanti contestano la gestione del potere.

L’ultimo decreto della titolare del dicastero dell’Interno Lamorgese è perfettamente in linea con questi insegnamenti storici: le reiterate, sempre più aggressive manifestazioni no green pass (che pure hanno ragion d’essere, trattandosi di una scelta politica di dubbio valore, e che contiene certamente elementi di discriminazione a cui prestare attenzione), e le proteste no mask, e no vax hanno fornito il pretesto per una stretta preoccupante, mai vista almeno in tempi recenti. Bisogna tornare alla emergenza “anti-terrorismo” per trovare qualcosa di analogo (pensiamo alla famigerata Legge Reale, del resto oggi tuttora vigente, anche se in sonno, buona però per essere risvegliata quando occorresse). Ma la rabbia è un segnale importante, e va colto, capito e si deve tentare, appunto, di trasformarla in azione politica.

Al termine della Grande Guerra Gramsci si poneva questo stesso problema, ossia come trasformare la rabbia in proposta e azione politica rivoluzionaria: allora ai sacrifici immensi dei combattenti si sommava la sofferenza delle popolazioni civili, provate dalla durata del conflitto, con tutte le sue conseguenze sulla vita quotidiana, con i lutti in tutte le famiglie (lutti che la febbre “spagnola” che stava scoppiando proprio allora avrebbe raddoppiato: la stessa famiglia Gramsci ne fu colpita, con la morte di una sorella di Antonio).

Tutto questo produceva rabbia, e il Partito socialista, di cui egli era militante, un militante sempre più insofferente dell’inanità della sua dirigenza, avrebbe dovuto sapere intercettare quella rabbia, e trasformarla in azione coerente delle masse. E non fu in grado di farlo. Gramsci riteneva che fosse indispensabile educare le masse, istruendole, aiutandole a ritrovare entusiasmo in se stesse, e voglia di lottare, ma organizzandole. Gramsci pensava che quelle masse avessero comunque una coscienza, sia pure “elementare”, una sorta di materia grezza su cui occorreva lavorare, attraverso un lavoro di pedagogia politica essenziale.

Oggi, a dispetto di chi crede e ripete che siamo in una situazione rivoluzionaria, credo piuttosto che siamo in una crisi profonda i cui esiti sono imperscrutabili.

Dobbiamo innanzitutto osservare e cercare di comprendere le trasformazioni degli assetti produttivi, con l’emergere, devastante, del capitalismo digitale, e del settore della logistica, su cui il capitale si è avventato famelico e vorace e la nascita di nuove figure di lavoratori “atipici”, per la stabilizzazione contrattuale dei quali si sono fatte e si stanno facendo lotte sicuramente partite in ritardo, e che finora si sono limitate a una prospettiva sostanzialmente corporativa.

Occorre invece collocare questa varietà di ruoli e soggetti individuali in una prospettiva più ampia, che sia a vantaggio dei lavoratori ma non accetti la logica per la quale il datore di lavoro sia un algoritmo, una entità ignota e spietata che ti multa se la consegna è effettuata con un minuto di ritardo, e così via, in una girandola infernale, magnificamente e amaramente rappresentata da Ken Loach nel suo ultimo film Sorry, we missed youOggi battersi per la riduzione degli orari di lavoro e l’aumento dei salari, per esempio, dovrebbe essere uno dei primi punti dell’agenda della Sinistra.

Non c’è dubbio che nell’era del finanzcapitalismo, così bene analizzato dal compianto Luciano Gallino, si sia verificato un grave arretramento della linea difensiva dei diritti dei lavoratori, in parallelo alla perdita di diritti dei cittadini in quella che possiamo vedere come l’espressione istituzionale del finanzcapitalismo (o turbocapitalismo), e del neoliberismo: la “post-democrazia” (così chiamata dal politologo Colin Crouch). Nuovi assetti produttivi, in un capitalismo sempre più sovranazionale davanti al quale gli Stati nazionali appaiono in affanno, sempre più sopraffatti.

Come ci ha insegnato Marx, l’economia va più veloce della politica, e il capitalismo globale “domina come Dio sull’universo”: è una frase di Tocqueville che riteneva, nella prima metà dell’Ottocento, a partire dall’esempio degli Usa, che fosse la democrazia a dominare estendendosi irresistibilmente sulla Terra.

Dopo la lunga stagione della faticosa conquista dei diritti, dopo i “trenta gloriosi” (ossia gli anni Quaranta-Cinquanta-Sessanta), con le grandi conquiste sul piano di diritti sociali (una stagione da noi proseguita anche nella prima metà dei Settanta, specie sul piano dei diritti civili), siamo entrati in un imbuto, alla cui ombra si stanno da un lato scardinando i diritti politici (si pensi alle varie riforme elettorali, ultima l’infamissima della riduzione dei parlamentari, a cui anche settori progressisti hanno consentito in nome di un preteso “risparmio”), e dall’altro si stanno riducendo quelli sociali, aggravando forme di oppressione e di sfruttamento.

Ma dobbiamo anche porre come obiettivo importante il principio che la democrazia deve entrare nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche, e anche in questo Gramsci ci è maestro, con le sue teorie dei Consigli di fabbrica e di una democrazia operaia, dal basso, che si estende dalla fabbrica alla città. La gestione della pandemia ha volutamente sacrificato i lavoratori, come ha sacrificato gli anziani nelle residenze: scarti questi ultimi, come i primi invece sono stati considerati e usati come carne da cannone, per la produzione.

Una volta i proletari si mandavano a morire in guerra, oggi si mandano a infettarsi nelle fabbriche, o sui mezzi di trasporto sovraffollati… E lo stesso dicasi del personale sanitario, osannato e sacrificato, in modo vergognoso.

In sintesi, il capitale sta cambiando, con l’imporsi del capitalismo digitale, con la totale prevalenza del potere finanziario, con la perdita di potere degli Stati nazionali, davanti ai giganti del web e della finanza. E stanno cambiando le modalità lavorative e le figure del lavoro, tra chi lo dà e chi lo espleta. Cambia il lavoro, le sue tecnologie, il suo ambiente. Ma con una intensificazione dello sfruttamento e della precarizzazione. L’economia digitale sta modificando anche la testa delle persone, in una prospettiva transnazionale. E condiziona in modo mai visto finora i media, la cultura, i processi di formazione (si pensi all’aziendalizzazione della scuola e dell’università).

La rivoluzione è attuale, in questo contesto? Scriveva Gramsci un secolo fa: “La rivoluzione non è l’atto arbitrario di una organizzazione che si afferma rivoluzionaria”, ma è “un lunghissimo processo storico che si verifica nel sorgere, nello svilupparsi di determinate forze produttive […], in un determinato ambente storico”. Interviene su questo poi l’atto della volontà degli individui, sia i singoli, sia gli individui collettivi, le classi, quando abbiano maturato una precisa coscienza. Siamo in questa situazione, oggi?

Certo, non possiamo prendere Gramsci alla lettera. Il contesto 2020-22 non è quello del 1918-22, e tuttavia ci sono alcuni elementi comuni. La pandemia è stata assimilata a una guerra, a torto o ragione, ma la metafora rende l’idea, anche se è stata usata anche per comprimere in modo più agevole gli spazi di libertà. E come ogni guerra ha lasciato ferite d’ogni sorta. E ha prodotto, e continua a produrre scontento, disgregazione, ansia sul futuro. Come un secolo fa c’è bisogno di ricostruire. Di creare un ordine, ma che sia nuovo.

Tanto più in una situazione assolutamente nuova come quella legata a una pandemia che non ha riscontri recenti, nel nostro mondo: quelle che l’hanno preceduta ci hanno soltanto sfiorato, essendo localizzate perlopiù fuori dall’Europa e dagli Usa.

E questo nuovo ordine a cui si dovrà tendere deve essere radicalmente diverso da quello che le classi dominanti stanno mettendo in atto, mattone dopo mattone, nella generale, colpevole inerzia (con minime sporadiche eccezioni) delle forze che in teoria dovrebbero rappresentare un’alternativa all’insegna dei bisogni e delle esigenze dei ceti popolari.

Il PD e i suoi cespugli a Sinistra (Articolo 1, Sinistra Italiana…) sono sostanzialmente inglobati, pur con qualche modesto distinguo, mentre quelli a destra (Italia viva, PiùEuropa, Azione ecc.) si sono tranquillamente inseriti in un grande “centro” in un probabile processo di fusione con Forza Italia, a prezzo persino di fare andare al Quirinale un personaggio squalificato sotto ogni aspetto come Silvio Berlusconi: un’autentica oscenità solo il pensarlo.

Di fatto è una nuova destra politica, che si sta formando, la quale tende a emarginare le ali estreme, ricuperando a sé il grosso della Lega e dei 5 Stelle, movimento che dopo aver saputo intercettare la protesta sociale e dato voce al bisogno di onestà, nella gestione della cosa pubblica, oggi appare spappolato, avendo mostrato drammaticamente la sua pochezza politica e una notevole dose di opportunismo, capace di produrre risultati positivi a breve termine, ma non a medio e lungo termine, anche per il modesto, talora modestissimo livello di cultura non soltanto politica della stragrande maggioranza dei suoi dirigenti.

Gli orientamenti che i grandi potentati stanno esprimendo per superare la crisi pandemica non concedono spazio alla speranza che le cose possano cambiare: o meglio in fondo quelle scelte stanno dicendoci che le cose cambieranno, ma non certo nel senso di un riequilibrio dei poteri e delle ricchezze: perché, proprio come era accaduto con la Guerra del ’14-’18, si sono prodotte nuove disuguaglianze, generando gigantesche ricchezze per le grandi multinazionali del farmaco, e inattesi profitti per farmacie, per ditte varie che si sono gettate sul mercato dei “presidi di sicurezza” anti-Coronavirus; e, scandalosamente ma non sorprendentemente, non pochi individui e gruppi hanno lucrato sulla “lotta alla pandemia”, in modo sovente truffaldino (si pensi soltanto al caso Pivetti e addirittura alle imputazioni emesse a carico – peculato, abuso d’ufficio e corruzione – dell’ex “commissario all’emergenza”, Domenico Arcuri, scelto personalmente, non dimentichiamolo, da Giuseppe Conte, allora presidente del Consiglio). Mascherine, tamponi, disinfettanti, e “presidi sanitari” di varia natura sono diventati un piccolo grande business, fuori perlopiù da ogni controllo e calmieramento dei prezzi.

Dall’altro canto, abbiamo centinaia di migliaia di persone e famiglie che hanno patito su ogni piano non soltanto la pandemia, ma anche la risposta politico-sanitaria ad essa data da governi impreparati o semplicemente inetti, quando non complici.

La protesta a cui stiamo assistendo da ormai un anno e più, e che assume forme crescenti, è innanzi tutto frutto di un disagio sociale enorme, davanti al quale dobbiamo stare attenti, specie perché una turba di piccoli e grandi demagoghi sta cercando e ottenendo visibilità, o ricuperando una audience perduta da anni, e addirittura ora si vocifera di trasformare il movimento in partito politico!

Si tratta, tuttavia, di un movimento in crescita, che pensa di sostituire all’intelligenza politica la furbizia, perciò capace di ottenere consenso (consenso genericamente anti-sistema), del tutto privo di sensibilità sul piano della cura alla pandemia che pericolosamente viene negata o sottovalutata, e privo anche di capacità di guardare al di là dei confini salvo per segnalare che non dappertutto vigono restrizioni, proprio mentre le restrizioni e le certificazioni stanno ritornando, prepotentemente.

E mentre costoro, figli del ricco Occidente, ma figli anche dell’ignoranza saccente di Facebook, gridano “no al vaccino!”, in larga parte della Terra si urla, o si implora: “vogliamo il vaccino!”. Chi ce l’ha lo rifiuta, e coloro che lo vorrebbero ne sono privati a causa dell’osceno ricatto dei brevetti di Big Pharma, davanti ai quali l’UE sembra impotente o complice. Un paradosso sul quale dovrebbero riflettere soprattutto quei contestatori che urlano alla “dittatura sanitaria” e si collocano o credono di collocarsi a Sinistra.

Basti riflettere a un dato: il 74% di tutti i vaccini contro il coronavirus somministrati nel 2021 è andato ai Paesi ad alto e medio-alto reddito, mentre meno dell’1% è stato somministrato in quelli poveri. Non credo occorrano commenti.

La Sinistra che vorrei, tuttavia, dovrebbe essere attenta alla crescita di queste proteste, che hanno catturato anche militanti della propria parte, accanto a neofascisti, in una folla che nega la realtà della pandemia, che ritiene saggio opporsi alla maschera, e rifiutare al vaccino, e che fa della lotta al certificato verde (su cui sono leciti molti dubbi, sul piano medico e su quello politico, certo), una questione di principio, ma che accetta ogni altra estorsione di identità, ogni altra concessione dei propri dati personali; ma nessuno di questi è un punto qualificante di una battaglia politica, e non sono questi gli obiettivi per rifiutare l’oppressione politica, per combattere le ingiustizie sociali e perlopiù altro non sono che velleitarie manifestazioni di impotenza prepolitica, e sovente addirittura, peggio, espressioni di brutalità oltre che di demenza (si pensi alle aggressioni a medici e personale paramedico, colpevoli di voler curare i malati di Covid o prevenire la diffusione del virus).

Una finta rappresentazione di un “Avanti o popolo alla riscossa”, sempre più egemonizzato da fascisti di ogni risma, e ingannato da mestatori di pochi scrupoli.

Eppure quelle folle, vanno tenute presenti, se non altro come stimolo per auto-interrogarci sul come riuscire a parlare, come farci ascoltare, soprattutto come farci capire, e come riuscire a reindirizzare quello scontento, quella rabbia, quella frustrazione verso obiettivi veri, reali, precisi, invece di un generico ripudio di tutto e tutti, secondo la non dimenticata logica eversiva e grottesca del “vaffa” lanciato come motto di un intero movimento dal suo fondatore.

In effetti i movimenti di no mask, no vax, no pass, con le opportune e necessarie distinzioni tra loro, richiamano le origini politicamente ‘plebee’ del M5S, ma appaiono imbarbariti, e ci riportano piuttosto all’effimero movimento dei “forconi”, quando anche allora una fetta di Sinistra radicale pensò che fosse da cavalcare, trattandosi di movimento di popolo, confondendo il popolo con il populismo, il confusionismo di piazza con la protesta politica.

In ogni caso il discorso sul fascismo è da affrontare; non è condivisibile per nulla la tesi di chi – a Sinistra – rifiuta l’allarme fascismo, ritenendolo una favola inventata o comunque utilizzata dal PD per disorientare le masse e indirizzarle su pseudo-obiettivi; l’assalto alla sede CGIL di Roma è stato un episodio di gravità enorme, un vero atto squadristico in piena regola, che ci riporta davvero, di colpo, ai primi anni Venti, anzi all’agosto 1919, quando i fascisti e nazionalisti e arditi smobilitati assaltarono e distrussero la Camera del Lavoro di Trieste, compresa la biblioteca in essa conservata, preziosissima; le immagini degli assalitori che distruggevano arredi, mobili, computer nella sede centrale del maggior sindacato italiano, sono l’agghiacciante equivalente di quell’azione ignobile di un secolo fa, a cui altre ne sarebbero seguite da parte delle “camicie nere”, con la protezione e talvolta con l’aiuto diretto di polizia carabinieri ed esercito.

Davanti a questa squallida ripetizione odierna, la reazione delle istituzioni pubbliche, e quella dello stesso sindacato sono apparse flebili; e in generale anche la Sinistra – tutta – ha sottovalutato questo avvenimento, stoltamente o colpevolmente. Anche in questo caso gli esempi del passato ci dovrebbero indurre a porre la dovuta attenzione ai fatti. Noi dobbiamo monitorare denunciare e reagire in tutte le forme consentite, ad ogni episodio di neofascismo “classico”, e ogni esempio di acquiescenza delle autorità e di favoreggiamento da parte di forze politiche “ufficiali”.

Ciò non toglie che dobbiamo essere consapevoli, come ci spiegava il filosofo Theodor Adorno, che il perdurare del fascismo in seno alla democrazia “è potenzialmente più pericoloso della sopravvivenza di tendenze fasciste contro la democrazia”. Tanto più in una situazione in cui lo Stato si mostra come una agghiacciante combinazione di repressione e inefficienza, mentre lascia spazi sempre più larghi al “Libero Mercato”, e l’economia pare senza guida, la cultura viene totalmente mercantilizzata, l’informazione asservita.

E nella carenza o nella cattiva gestione delle informazioni scientifiche (gravissima colpa di governi e amministrazioni locali, e degli stessi media) dilagano le informazioni fai-da-te, con l’emergere di personaggi senza alcuna competenza, ma che parlano, anzi gridano, il linguaggio della “gente”, estremo frutto di un liberismo anarcoide che nulla ha a che fare con il pensiero e la storia della Sinistra.

E allora, che fare?

Quello che mi appare sicuro è che una Sinistra che voglia andare oltre la mera autoconservazione (sempre più in forse) dovrebbe intercettare i bisogni reali delle più vaste fasce di popolazione, e trasformarli in azione politica. Ma occorre prepararsi, occorre impegnarsi, occorre disciplinarsi: le elezioni politiche sembrano lontane ma non lo sono e comunque non si può escludere che siano anticipate.

Poiché pare che disattendendo gli impegni tanto il M5S quanto il PD, complice gran parte dello schieramento ‘costituzionale’, lorsignori stiano lasciando cadere la riforma elettorale in senso proporzionalistico, che era stata decisa a compenso della sciagurata “riforma” che ha dimezzato (e in modo tra l’altro iniquo verso le realtà territoriali) il numero dei parlamentari, dobbiamo impegnarci in ogni forma possibile per spingere quei partiti a tener fede all’impegno: facendo capire alla pubblica opinione che se non si farà questa riforma la democrazia italiana potrà considerarsi morta.

E se non si farà, la possibilità per le ‘forze minori’ (condizione in cui oggi siamo, ahinoi; anzi, ormai siamo forze minime…) per giungere in Parlamento saranno pressoché inesistenti.

E se la riforma non si dovesse fare allora la nostra risposta dovrà essere forte, fino a minacciare il boicottaggio delle elezioni. Non dobbiamo accettare un gioco truccato all’ennesima potenza. Siamo già vittime di norme elettorali fortemente penalizzanti, non possiamo renderci complici di questo estremo crimine, di questa decisiva ferita alla Costituzione repubblicana.

Ormai la nostra Repubblica, trasformata già da un ventennio in una “post-democrazia”, oggi appare un’oligarchiaIl sedicente “governo dei migliori” si è rivelato, nel suo insieme, un governo dei peggiori. Possiamo rimanere inerti? Forma e sostanza della Costituzione vengono obliterate o cancellate tranquillamente: in nome di una fittizia contrapposizione tra “Costituzione formale” (quella del 1948, giudicata “vecchia”) e “Costituzione materiale”, che sembra esserne lo specchio scuro, o addirittura l’immagine rovesciata.

La Sinistra non ha oggi rappresentanza, quasi a nessun livello, e occorre ricostruire precisamente la rappresentanza, per poter essere interpreti e portavoce di gruppi sociali oppressi, emarginati e senza voce.

Il popolo della Sinistra non può essere limitato a coloro che scendono in piazza con le bandiere, a coloro che partecipano a raduni di partito, a coloro che sanno le cose, a coloro che insomma la pensano come noi e sono come noi. E se qualcuno ci verrà a dire che conviene “saltare un giro”, dobbiamo ricordare che sono ormai 13 anni che la Sinistra non ha più rappresentanza, e forse è ora di riorganizzare le forze e ripartire. Dalle lotte, dallo studio, dall’azione politica più vasta e diffusa, che comprende anche le contese elettorali, ma non si identifica in esse, certamente.

Il popolo della Sinistra non può limitarsi ai militanti e agli attivisti, altrimenti non è popolo. E se vogliamo provare a raggiungere quel popolo dobbiamo rinascere, non attraverso la sommatoria di sigle, magari sotto un ombrello federativo occasionale: dobbiamo imparare a pensare ed agire non in vista delle elezioni, ma per uno scopo più alto, che tuttavia non deve escludere il momento elettorale.

Da questo punto di vista la vicenda di Torino, in cui sono stato coinvolto, come ho detto all’inizio mi ha fornito insegnamenti utili. Alcune delle componenti della coalizione che mi supportava si sono comportate di fatto come corpi indipendenti e autoreferenziali, mostrando sovente una preoccupante aggressività verso gli altri compagni, delle diverse organizzazioni, e un’arroganza immotivata.

Troppo spesso ho visto soltanto l’ossessione della piazza, che troppo sovente induce a ridurre il discorso politico a slogan e ad azioni di scarsa o scarsissima presa popolare. Altre forze, pure traboccanti di persone oneste, di vecchi (più raramente giovani) compagni e compagne, mi sono apparse muoversi troppo spesso sull’onda di un puro nostalgismo che non è la chiave forse più adatta per realizzare obiettivi concreti di alternativa all’attuale stato di cose.

E anche chi da decenni si autoetichetta come “comunista” o parla della necessità di rifondare il comunismo non dovrebbe a questo punto farsi forza propulsiva o compartecipe, con altre, di un’azione ben più ambiziosa? Quella che oso lanciare con questa lettera aperta, il cui obiettivo dovrebbe essere una vera e propria rinascita della Sinistra.

Non so se quest’azione comporti la rinuncia a sigle e simboli; io non lo chiedo. Chiedo però, con fermezza, che ci si fermi a ragionare, anche compiendo sforzi di immaginazione, per disegnare nuovi scenari, nei quali un soggetto unico o almeno unitario della Sinistra possa infine nascere e contare davvero, e uscire dal circolo vizioso della memoria, del rimpianto, dello scoramento.

So e sento ripetere intorno a me da anni che l’autoperpetuazione di piccoli gruppi dirigenti di piccoli partiti (partitini, si precisa) a volte sembra il solo scopo della sopravvivenza delle organizzazioni della “Sinistra radicale”. Forse anche sotto questo riguardo sarebbe necessario dare un segnale. E dobbiamo soprattutto badare al fatto che il patrimonio della Sinistra non è dato (non soltanto e non in primo luogo) dai partiti, quanto dai sindacati, dalle associazioni, dai gruppi spontanei o organizzati, anche quelli che non si auto-etichettano come di Sinistra, anche quelli che non si proclamano comunisti.

Del resto, mettiamoci in testa che “Sinistra” e “Comunismo” sono due termini che il tempo e le sconfitte hanno usurato, e vanno oggi impiegati con cura, con cautela, e con rispetto ai loro fondamenti storici e teorici. Hanno bisogno di essere non solo restaurati ma di più: devono rinascere se non dalle loro ceneri quanto meno dai frammenti in cui errori nostri e i colpi della storia li hanno impietosamente ridotti.

Se vogliamo fare un altro percorso, se vogliamo avere un diverso atteggiamento, dobbiamo porci come meta, e come valore, la Sinistra stessa.

Abbiamo bisogno di una Sinistra vera, autentica e non autoreferenziale, che tesaurizzi le esperienze storiche di tutti i movimenti che hanno concorso nel tempo, lungo almeno un paio di secoli, a costituire il bagaglio di quell’insieme di teoria e prassi che chiamiamo “Sinistra”: imparando dagli errori, apprendendo dalle virtù di ciascuno di essi, e realizzando un nuovo ‘pacchetto politico’ adeguato ai tempi dell’ultracapitalismo e del neoliberismo.

Dobbiamo imparare ad essere dialogici, uscendo dal settarismo e dall’autoreferenzialità, imparare ad ascoltare e confrontarci con tutte le componenti del variegato mondo della Sinistra. Imparare a metterci in discussione, e non soltanto ad azzannare i compagni che la pensano diversamente da noi, se condividiamo gli obiettivi, e siamo pronti a discutere di come raggiungerli.

Lo scontro oggi è impari, e dobbiamo reinventarci come Sinistra per reggere, altrimenti, a forza di sconfitte, scompariremo del tutto, e lasceremo l’iniziativa alla jacquerie, animata da “intellettuali falliti” (espressione gramsciana) e incarnata da un lumpenproletariat, privo di coscienza e di obiettivi politici. Una Sinistra che sappia scegliere il momento dello scontro e quello del confronto, che individui soggetti sociali e referenti politici con i quali dialogare.

E, diciamolo, la CGIL – tanto meno la CGIL di Landini – non può essere assolutamente esclusa a priori, da questo novero, anche se possiamo sentirci ed essere più vicini ai sindacati “conflittuali”, anche se conosciamo e denunciamo errori e compromissioni di questo sindacato come degli altri (ma assai di più) confederali.

Anelo a una Sinistra che si rialzi dall’ennesima sconfitta, che non si accontenti di rimanere in vita, sempre più mestamente e stancamente, riducendosi a rappresentare percentuali di voto intorno all’uno o allo zero virgola per cento; una Sinistra che si ricordi di essere “di alternativa”, al di là delle etichette e delle bandiere, e che, cioè, provi a disegnare un progetto alternativo di società, credendoci, ma non rinunci alle singole battaglie, in attesa di vincere la guerra; una Sinistra che raccolga singoli e collettività, che non faccia l’esame del sangue preventivo a chi voglia contribuire all’azione e all’elaborazione, che abbandoni la gara di chi è più comunista o più alternativo, che abbandoni vecchie contese (siamo ancora al contrasto Trockij-Stalin!), che generi un nuovo costume, e lanci parole d’ordine innovative, originali come il pensiero che dovrà mettere a punto.

Una Sinistra che getti alle ortiche dispute stantie, slogan soltanto ormai retorici e che sappia parlare a quel popolo che vuole raggiungere, e organizzare, rinunciando a intellettualismi e ideologismi. Una Sinistra popolare ma non populista, una Sinistra ferma nei princìpi e duttile nelle strategie e nelle tattiche, una Sinistra che abbandoni per sempre settarismi e identitarismi.

Una Sinistra che sappia coniugare realismo e utopismo, come ha insegnato Gramsci, che sappia guardare avanti, perché conosce quello che sta dietro, che costruisca un futuro in quanto è cosciente del passato, e ne sappia trarre, appunto, i corretti insegnamenti. Una Sinistra che come “l’Angelo della Storia” di cui parla Walter Benjamin, cammini in avanti ma con lo sguardo all’indietro, proprio per non dimenticare le proprie radici, e le faccia germogliare di nuovo.

Una Sinistra che colmi due lacune, che sono emerse in questi anni nelle sue attitudini mentali e nei suoi comportamenti pratici: 1) rimettere al centro dell’attenzione la questione meridionale, perché il Mezzogiorno oggi più di ieri, e persino più dell’altro ieri, rimane quella “grande disgregazione sociale” denunciata da Gramsci. E noi, noi di Sinistra, fingiamo di non accorgercene; 2) guardare le cose in modo da connettere il piano locale, con quello nazionale e quello internazionale: non siamo isole, ma pezzi di continente, e dobbiamo, per capire, e per lottare, tenere presenti sempre questi tre piani (locale, nazionale, sovranazionale). Il che non abbiamo fatto, e non facciamo se non rarissimamente.

E mi permetto di chiamare gli intellettuali a uscire dalle loro nicchiea spendersi, a metterci la faccia – come ho fatto nella recente competizione elettorale, consapevole della temerarietà dell’impresa –, in questo processo, pronti ad affrontare il rischio della sconfitta, ma anche a dare il loro contributo di sapere a tutti: intellettuali che sappiano e vogliano “farsi popolo” e nel contempo aiutare quel popolo a trasformarsi in una “massa critica” intellettuale.

Perciò, rimettendomi personalmente in gioco, senza alcuna pretesa, se non quella di contribuire a far partire un movimento di riscossa, di rilancio, di vera e propria rinascita della Sinistra, propongo di dar vita subito a un processo costituente, che possa condurci a siffatto obiettivo, cercando di non ripetere gli errori del “percorso del Brancaccio” del 2017-2018, e le tentazioni dell’egemonismo di un gruppo sugli altri.

Propongo assemblee in tutte le realtà locali, ovunque, nel Paese, incontri nei quali non ci saranno soltanto le nostre proposte ma ci sarà anche e prima l’ascolto di bisogni ed esigenze di quella “gente comune” – dei più diversi ceti sociali, e in specie di tutti coloro che oggi rientrano nella vasta categoria dei “subalterni”, degli schiacciati da piccoli e grandi potentati, dai vessati da un fisco iniquo e da una burocrazia oppressiva, dagli ingannati da un sistema informativo colpevolmente menzognero, che è oggi il primo complice dei gruppi di oppressione e di sfruttamento.

Personalmente, coltivo un sogno, e lo rivelo soltanto come segnale della necessità e dell’urgenza di pensare in grande, di osare in grande, di sognare, se si vuole, in grande: confesso di sognare un “Partito Gramsciano”, magari con carattere sovranazionale, perché Antonio Gramsci è una straordinaria icona insieme italiana, europea, mondiale, conosciuto e studiato e seguito in larga parte del mondo.

Un partito che sappia tesaurizzare il lascito gramsciano, che abbia come meta il comunismo inteso come “umanismo integrale”, che sappia essere un partito di massa in cui si discute, e si delibera insieme, democraticamente; un partito che faccia circolare le élite, che sappia selezionare dal basso costantemente la propria classe dirigente.

Un partito le cui basi siano marxiste, ma allargate in modo da accogliere stimoli della più varia provenienza, proprio come fece Gramsci, che dilatò enormemente il marxismo e si confrontò criticamente con il leninismo, diventando un acutissimo interprete critico della modernità, utilizzando autori e culture di assai diversa provenienza, realizzando così uno originalissimo cocktail, che oggi è alla base della popolarità internazionale di questo nostro concittadino.

Il partito che sogno, al di là della etichetta, dovrà tenersi alla larga da ogni forma di dogmatismo e di settarismo, capace, piuttosto, di accogliere in sé l’eterodossia, e anzi persino di stimolarla, come lievito fecondo. Un partito nel quale si arrivi insieme alla verità, dal basso, e non subendola dall’alto.

Un partito fermo nei valori e nei princìpi, ma duttile nei dettagli, aperto verso tutti coloro che intendono collaborare anche soltanto su un unico aspetto, su una sola tematica, su una sola battaglia, perché tale partito deve saper distinguere la tattica dalla strategia, gli obiettivi a breve, a medio e a lungo termine.

Ma questo è puramente il mio sogno personale.

Per ora, la proposta che più prudentemente lancio è quella di avviare un percorso, con tutti coloro che condividano grosso modo i pensieri che ho qui esposti, sinteticamente. Quello che conta però, adesso, è muoversi, è partire, è mettere in moto il processoSe accettiamo oggi la condizione di irrilevanza in cui siamo, non potremo evitare, tra breve, l’estinzione.

Perciò è indispensabile far partire subito il percorso. Per citare Lenin: “La storia non ci perdonerà” se non coglieremo questa occasione, o se tarderemo ancora. E rimarremo soltanto nella forma di una nota a piè di pagina dei futuri manuali di storia: “Ci fu un tempo in cui esisteva anche una Sinistra alternativa: radicale, ecologista, comunista, che dopo essersi ridotta alla totale emarginazione, scomparve del tutto…”. È questo che vogliamo?

Perciò, oso lanciare il motto: Avanti verso la Costituente della Sinistra!

ANGELO D’ORSI

gennaio 2022