Benvenuti nel Mattdraghismo

Editoriali

di Giovanni Russo Spena – La rielezione del presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha suscitato un generale sospiro di sollievo da parte di quanti tremavano al pensiero di un mediocre spettacolo di ingovernabilità. Analizziamo, tuttavia, alcune significative questioni aperte sugli assetti istituzionali e sociali dell’Italia.

A cominciare, soprattutto, dall’articolo 85 della Costituzione: «Il Presidente della Repubblica è eletto per sei anni». La Costituzione quindi non prevede un secondo mandato, anche se non lo esclude. Da costituzionalista, Mattarella ha sempre sostenuto questo punto di vista. In effetti, all’inizio ha ripetutamente rifiutato l’idea della rielezione, ma poi l’ha accettata per una ‘ragion di Stato’ di primaria importanza. I costituzionalisti sono divisi sull’ammissibilità costituzionale di un secondo mandato. Il Presidente del Comitato per la Difesa della Costituzione ha scritto:

La Costituzione non impone un divieto e sarebbe sbagliato pensare che la mancanza di un provvedimento significhi incuria da parte degli artefici. È stata una scelta consapevole. Ciò è dimostrato dall’inclusione nel testo originario dell’articolo 88 sul ‘semestre bianco’ [riferito agli ultimi sei mesi del mandato del Presidente], che ha senso solo supponendo che la rielezione sia possibile. Non c’è ‘spirito’ degli artefici che indicherebbe il contrario.

Tuttavia, credo che nel sistema costituzionale italiano quattordici anni di mandato siano eccessivi; questa è una prima istituzionale. Dobbiamo quindi considerare la rielezione di Mattarella come un’eccezione. C’è il rischio che dopo la Presidenza di Napolitano l’eccezione diventi la regola fatale? Penso che sia necessaria una vigilanza democratica per impedirlo. Lo stesso Mattarella aveva parlato di altri sette anni come di un ‘errore grammaticale costituzionale’: il presidente della repubblica non dovrebbe diventare un oligarca democratico.

Ricordiamoci che ci sono state due auto-candidature che hanno bloccato per giorni il Parlamento: la grottesca e improbabile candidatura di Berlusconi e quella del presidente del Consiglio Draghi, a cui mi sono sempre opposto per motivi politici ma anche profondamente costituzionali. L’elezione di Draghi ci avrebbe fatto scivolare in modo confuso e surrettizio verso una forma di quinta repubblica gollista. Draghi ha affermato, a mio avviso, che le norme costituzionali erano conformi alle sue ambizioni presidenziali. Se fosse stato eletto Presidente della Repubblica avrebbe preteso che un altro titolare ‘tecnico’ (uno, appunto, da lui stesso nominato) diventasse Presidente del Consiglio. Un governo tecnocratico/oligarchico che avrebbe distrutto la dialettica politica e fatto della politica l’ancella del potere economico e finanziario.

E poi c’è una questione fondamentale. L’articolo 87 della Costituzione recita: “Il Presidente della Repubblica è il capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale”. Draghi sarebbe stato invece il capo di una coalizione, cioè di maggioranza, un presidente partigiano.

Aggiungerei un’osservazione che può sembrare una questione secondaria ma è davvero centrale in una società tecnologica e dei media in cui la velocità dell’informazione diventa un plasmare il senso comune e l’immaginario collettivo. Ho visto in gioco una perfida campagna mediatica – di stampo tecnocratico/liberalista – volta, con affettato disprezzo, a screditare l’istituzione stessa della democrazia parlamentare. Avvalendosi della reale debolezza del sistema politico (presente da almeno trent’anni, problema spesso innescato dal sistema elettorale maggioritario) e della profonda crisi della rappresentanza politica, stampa e mass media, quasi all’unanimità, hanno presentato il Parlamento cercare un nuovo Presidente della Repubblica come mercato spregevole. I mass media liberalisti hanno fatto finta di non capire che democrazia significa anche lentezza, che sia arricchito da confronti, scontri e mediazioni. Questa è la legalità costituzionale italiana. Questa campagna mediatica, a mio avviso, tende essenzialmente a convincere l’opinione pubblica, e il profondo stato d’animo della nazione, che è necessario un cambiamento radicale della Costituzione, a partire dall’instaurazione di un’elezione popolare diretta del Presidente della Repubblica. Questo sarebbe anche uno stravolgimento di tutta la prima parte della Costituzione, cioè gli articoli che stabiliscono le basi della nostra formazione sociale fondata sui valori originati dalla Resistenza. In effetti, l’entità dei poteri, compresi i poteri esecutivi, di un presidente eletto dal popolo è evidente a tutti. Non sto parlando di una minaccia vacua o solo potenziale. La destra all’unanimità – ma anche settori del centrosinistra e, soprattutto, l’associazione dei datori di lavoro – hanno preparato e presentato progetti di leggi costituzionali. Meloni e la destra hanno basato la propria campagna elettorale su questo progetto. Non mi sembra che ci siano antidoti adeguati a questo o convinzioni abbastanza forti all’interno del centrosinistra per poter resistere alla destra.

La settimana delle elezioni presidenziali ha dimostrato la profonda crisi del sistema politico. Ciò è dovuto, senza dubbio, all’egemonia esercitata dall’economia, dai processi di accumulazione, dalla formazione di catene del valore all’interno delle tragiche convulsioni della globalizzazione liberalista, che rivelano aspri conflitti intorno alla competitività – tra imprese, tra macroterritori, e tra stati. Questo contesto ha creato trent’anni di bipolarismo e un sistema maggioritario che ha dissolto la rappresentanza politica. Non è un caso che siano ora in crisi coalizioni formate da forze eterogenee in competizione tra loro, e che sono state messe insieme solo per governare o per altri motivi di potere – coalizioni costruite solo per accaparrarsi voti. Nella settimana delle elezioni presidenziali ai partiti è stata impartita una dura lezione.

Ritengo fondamentale che una legge proporzionale venga discussa in Parlamento, e molto presto; una legge che vede rappresentanti parlamentari eletti dai cittadini – e prima delle prossime elezioni, soprattutto dopo la terribile riduzione lineare avvenuta nel numero dei parlamentari. Solo una legge elettorale proporzionale sarebbe infatti lo ‘specchio del Paese’, come l’ha definita l’ex segretario generale del Pci Palmiro Togliatti. E senza sistema di bonus di maggioranza, senza leggi ‘truffa’, senza voti ‘utili’ e ‘usa e getta’. Dobbiamo tornare al principio fondante di “una persona, un voto”.

Solo la democrazia proporzionale consentirà ai partiti di affrontare la crisi attuale. Sollevo una questione di prospettiva: occorre finalmente approvare la legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione (“ogni cittadino ha diritto alla libera associazione nei partiti per partecipare, con metodo democratico, alla determinazione della politica’). Ed è necessario riconsiderare la normativa sul finanziamento pubblico dei partiti, goffamente distrutta dal populismo reazionario che ha esacerbato gli aspetti predatori e di impresa privata dei partiti di cartapesta. La democrazia rappresentativa può essere rilanciata solo attraverso una forte dialettica di democrazia diretta, con l’autogoverno popolare e l’autorappresentazione.

In definitiva, non credo che la rielezione di Mattarella porterà stabilità. Rischia invece di preservare l’attuale dilemma. Credo che, paradossalmente, vivremo mesi di grande instabilità, decomposizione e ricomposizione dei partiti – forse anche scissioni di partiti. Non disdegno l’instabilità, finché nella società cresce un movimento di massa che dà vita a una nuova sinistra anticapitalista, unificata e plurale.