di Gaël Giraud – L’inflazione globale non è stata in alcun modo prevista dagli economisti. Nella maggior parte dei Paesi industrializzati ora raggiunge l’8% su base annua e promette di accompagnarci nei prossimi mesi e forse anche nei prossimi anni.
Nella misura in cui la maggior parte delle società occidentali ha scelto, quarant’anni fa, di dare la priorità alla lotta contro l’inflazione rispetto a qualsiasi altra considerazione politica, un gran numero di banche centrali occidentali si ritiene ormai costretto a imitare la politica monetaria antinflazionistica della Federal Reserve statunitense. E quest’ultima ha appena deciso un aumento dei tassi di interesse di riferimento senza precedenti da diversi decenni. Tuttavia questa decisione non è affatto una «risposta tecnica» all’inflazione.
Essa espone infatti il Pianeta al rischio maggiore di un nuovo crollo finanziario, simile, o addirittura peggiore di quello del 2007-2009, eventualmente accompagnato da crisi del debito pubblico analoghe a quella della Grecia nel decennio successivo. Come siamo arrivati a questo punto? Esistono politiche pubbliche alternative?
L’inflazione? È tutta questione di energia e di materie prime
L’Occidente è attualmente colpito da un livello di inflazione che non si vedeva da 40 anni. Poiché gli aumenti dei prezzi non sono uniformi tra i settori e le categorie di beni e servizi, alcune famiglie – in genere le più svantaggiate – si trovano in realtà ad affrontare un’inflazione del 10% annuo. Gli stipendi occidentali molto probabilmente non seguiranno questa tendenza.
Ciò comporterà una notevole perdita di potere d’acquisto per le famiglie, la cui quota dei salari sul Pil era già in calo da quarant’anni: per quanto sempre più produttive, le famiglie si sono arricchite sempre meno. Ormai, la maggior parte di esse si impoverirà in modo molto drammatico.
Come ha fatto il presidente Biden nel discorso del 10 giugno 2022, alcuni leader politici attribuiscono la responsabilità dell’evento all’invasione russa dell’Ucraina. Tuttavia
, se l’interruzione della fornitura di combustibili fossili russi e ucraini ha una certa importanza nell’attuale inflazione, è ben lungi dall’esserne la forza trainante. Lo testimonia il fatto che l’inflazione era già vicina al suo livello attuale quando la guerra è iniziata, lo scorso 24 febbraio. Alcuni economisti danno la colpa ai 1.000 miliardi di dollari di spesa pubblica che il governo federale degli Stati Uniti ha stanziato nell’inverno del 2020 per sostenere le famiglie più povere durante la crisi sanitaria. Spendendo questo denaro dopo il lockdown, quando molte catene di approvvigionamento si stavano ancora riprendendo, queste famiglie povere avrebbero acceso l’incendio dell’inflazione. Neanche questa spiegazione è convincente, perché la manna distribuita dal governo federale degli Usa non ha equivalenti in Europa, che pure risente di un’analoga inflazione. Inoltre, i prezzi dell’energia, ad esempio, avevano già iniziato a salire a metà del 2020, anche prima della fine del lockdown e della fine della presunta eccedenza di risparmio delle famiglie americane a basso reddito.
In realtà, la causa iniziale dell’inflazione è stata la ripartenza dell’economia dopo la crisi del Covid, che, in un contesto di relativo razionamento della produzione di combustibili fossili, ha fatto salire i prezzi dell’energia. La Banca Mondiale stima che l’aumento del prezzo dell’energia sia stato del 56% tra la fine del 2019 e il febbraio 2022[1]. A differenza di quanto avvenuto nel 2008, questo aumento non è dovuto alle speculazioni dei trader sui mercati dei derivati delle materie prime: all’epoca, infatti, molti speculatori, in preda al panico, avevano ritirato i loro contanti dagli asset subprime, per investirli in derivati del petrolio. Oggi non accade niente di simile. I prezzi dell’energia in quel periodo sono addirittura scesi del 60% tra aprile 2019 e aprile 2020: almeno la metà dell’attività economica mondiale era stata sospesa, il che aveva portato a un calo della domanda di energia, e quindi del suo prezzo. Allo stesso modo, i siti di produzione di energia nei Paesi esportatori di idrocarburi erano stati chiusi durante il confinamento, e gli investimenti nell’esplorazione di nuovi giacimenti di petrolio e gas erano notevolmente diminuiti. Perché i prezzi dell’energia sono fortemente aumentati dalla metà del 2020? Perché la produzione di oro nero e gas si trova di fronte a un collo di bottiglia.
Il picco di estrazione convenzionale di petrolio è già stato raggiunto su scala globale nel 2006[2]. Da allora, è tecnicamente impossibile aumentare il flusso annuale di estrazione dell’oro nero senza ricorrere a tecniche non convenzionali (fratturazione idraulica di rocce, scisti ecc.). Sapere quando il Pianeta raggiungerà il picco di estrazione attraverso tutte le tecniche combinate (convenzionali e non convenzionali) rimane una questione aperta. Ma un numero crescente di ingegneri petroliferi concorda sul fatto che ciò potrebbe avvenire già in questo decennio, e tutti sono d’accordo nel dire che avverrà prima del 2060. Uno dei sintomi dell’imminenza di questo importante fenomeno geologico è il crollo dell’EROI («Ritorno sull’investimento energetico») del petrolio negli ultimi anni[3]: occorre impiegare sempre più energia per estrarre il petrolio di cui abbiamo bisogno. Questi vincoli geologici sono noti da molto tempo. Essi spiegano ampiamente l’aumento del costo dei combustibili fossili, sempre meno redditizi, mentre l’economia mondiale non ha ancora intrapreso la strada della sua conversione alle energie rinnovabili (l’80% dell’energia dissipata su scala globale è ancora di origine fossile). Non abbiamo preso le misure necessarie per proteggerci da questo aumento dei costi, per quanto prevedibile.
I fattori che spiegano l’inflazione globale sono quindi:
– la ripresa economica post-Covid e l’aumento della domanda di energia, combinati a un’offerta insufficiente perché resa sempre più onerosa dai vincoli geologici. Il prezzo mondiale del greggio è raddoppiato tra giugno 2020 e febbraio 2022, raggiungendo il livello più alto da ottobre 2014. Il prezzo mondiale del carbone è più che triplicato tra giugno 2020 e settembre 2021; si è poi stabilito al suo livello più alto dal settembre 2008, prima di ridiscendere del 7% fino al gennaio 2022. Ciò si spiega in parte con la parziale sostituibilità del carbone e del petrolio per la produzione di energia elettrica, in quanto il carbone, d’altra parte, non è vicino a raggiungere il suo picco di estrazione.
– A ciò si aggiungono incidenti tecnici o climatici: il blocco del Canale di Suez nel marzo 2021; l’incendio in un impianto di gas in Siberia nell’estate del 2021; l’uragano Ida nelle regioni produttrici di petrolio del Golfo del Messico alla fine dell’estate 2021; la prosecuzione dei lockdown in Cina a causa della politica zero-Covid di Xi Jinping, che continua a rallentare il funzionamento di alcune fabbriche chiave nelle catene di valore globali; le siccità che, privando Taiwan dell’acqua, hanno rallentato la produzione di semiconduttori (realizzata per il 70% a Taiwan).
– Come pure le tensioni tra Russia ed Europa nel 2021. Mosca (che fornisce il 40% del gas dell’Unione europea) si è rifiutata fino all’ottobre 2021 di aumentare le sue esportazioni verso il continente europeo, chiedendo la messa in funzione del gasdotto Nordstream 2. Peraltro, il gasdotto Nordstream 1 è chiuso da diversi mesi per riparazioni.
– Scorte di gas anormalmente basse in Europa, a causa di un inverno molto lungo e di un calo delle forniture russe. Il prezzo mondiale del gas naturale è quintuplicato tra maggio 2020 e novembre 2021, stabilizzandosi quindi al livello più alto da settembre 2008. È poi sceso del 13% fino a febbraio 2022.
– L’aggravarsi senza precedenti delle tensioni tra Russia ed Europa dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina nel febbraio 2022. Stiamo considerando anche le sanzioni economiche che, sebbene non siano state ancora pienamente attuate e sebbene la Germania, ad esempio, non abbia ancora intenzione di rinunciare al gas russo, alimentano l’impennata del prezzo degli idrocarburi fossili. Il prezzo del gas europeo è aumentato di 12 volte tra maggio 2020 e dicembre 2021. Ha quindi superato del 66% il picco registrato durante la crisi dei subprime nel settembre 2008. Tuttavia, tra aprile 2020 e ottobre 2021, il prezzo del gas negli Stati Uniti è aumentato «solo» di 2,6 volte, un livello ben inferiore a quello registrato durante la crisi dei subprime. L’Europa è dunque molto più colpita dall’aumento dei prezzi del gas rispetto agli Stati Uniti a causa della sua dipendenza dal gas russo. Anche se esistono altre fonti di approvvigionamento vicine all’Europa – ad esempio, in Algeria –, questo dovrebbe fornire un ulteriore incentivo per l’effettiva attuazione della decarbonizzazione.
La risposta delle banche centrali
La maggior parte degli economisti convenzionali fraintende il ruolo centrale dell’energia e delle materie prime nell’inflazione, perché quasi tutti i modelli che utilizzano non le includono: esse sono considerate un elemento secondario della vita economica, mentre tutti gli imprenditori sanno che un blackout elettrico prolungato può avere conseguenze economiche catastrofiche[4]. In linea con il dogma sostenuto da molti economisti mainstream, le amministrazioni delle banche centrali ritengono che l’inflazione sia un fenomeno monetario: se si aumenta la quantità di denaro in circolazione, si crea sempre inflazione. Questa, secondo loro, può essere dovuta solo a un eccesso di liquidità monetaria. Per contrastarla, si dovrebbe quindi ricorrere allo stesso trattamento che Paul Volcker inflisse all’economia americana all’inizio degli anni Ottanta per combattere l’inflazione indotta dai due shock petroliferi: aumentare drasticamente il tasso di interesse di riferimento della Banca centrale statunitense (Fed)[5].
Il 15 giugno 2022, la Fed ha dunque annunciato l’aumento del tasso di riferimento a breve termine all’1,75%. Questo aumento di +0,75 punti è il più elevato dal 1994. Inoltre, la Fed ha annunciato che prevede di raddoppiare questo tasso entro il 2023. Il giorno successivo, anche le Banche centrali britannica e svizzera hanno aumentato notevolmente il tasso di riferimento. La Banca centrale europea (Bce), invece, ha deciso di non agire a giugno, mentre ha alzato i tassi di interesse di mezzo punto a luglio.
In questo modo, la Fed spera di ripetere il «Volcker shock» del 1980, o almeno spera che la prospettiva di usare quest’arma abbia l’effetto di incoraggiare Wall Street a speculare al ribasso sulle materie prime. Poiché i mercati finanziari dei derivati sulle materie prime pesano molto più dei mercati spot, la speranza è che la speculazione al ribasso sia sufficiente a far scendere i prezzi senza che la Fed debba effettivamente mettere in atto la sua minaccia. Negli anni Ottanta, la politica di violenti rialzi dei tassi imposta dal governatore della Fed fu coronata da successo: l’inflazione venne effettivamente domata, ma a costo di una grave recessione dell’economia statunitense. Il motivo è semplice: le banche commerciali hanno regolarmente bisogno di rifinanziarsi sul mercato interbancario, dove prendono a prestito a un tasso a breve termine, prossimo a quello fissato dalla banca centrale. L’aumento di quest’ultimo fa automaticamente aumentare il costo di rifinanziamento per le banche commerciali, che trasferiscono immediatamente tale costo sul tasso di interesse che esigono dai propri clienti e sulle condizioni per la concessione dei prestiti. L’aumento dei prezzi e l’inasprimento delle condizioni di credito «soffocano» rapidamente gli investimenti e i consumi. L’economia entra in recessione, la disoccupazione aumenta e i prezzi scendono. Il sistema produttivo soffrirà poi per anni di questa mancanza di investimenti, mentre molti attori economici – famiglie e imprese – saranno nel frattempo falliti, per non parlare della sofferenza sociale che accompagna questo tipo di sperimentazione in vivo. Ancora oggi, molti economisti sembrano non aver imparato la lezione di questo episodio disastroso e, di fronte a sintomi inflazionistici di cui faticano a identificare le cause energetiche e legate al razionamento di alcune materie prime (comprese quelle agricole), applicano gli stessi rimedi. Alla fine la febbre può forse diminuire, ma nel frattempo il paziente rischia di morire.
Per di più, la situazione odierna è molto più complicata che negli anni Ottanta. Infatti, già dal 1985 il prezzo del barile di petrolio era saggiamente tornato al livello del 1973, perché nessun vincolo geofisico impediva al cartello dell’Opec di aumentare la sua produzione annuale. La geopolitica dell’epoca aveva favorito una ripresa della produzione da parte di coloro che l’avevano brutalmente interrotta nel 1973 e poi nel 1979, permettendo al costo del petrolio di scendere nuovamente, e quindi all’inflazione di rimanere bassa per molto tempo, al di là degli effetti del «Volcker shock».
Come alcuni economisti allora non sono riusciti a capire che l’inflazione proveniva dagli shock petroliferi, così non hanno nemmeno capito che il «successo» a medio termine della loro terapia monetaria d’urto non era legato in primo luogo all’aumento dei tassi di interesse. Se fosse stato così, i prezzi avrebbero dovuto ricominciare a salire in concomitanza con la discesa dei tassi di interesse, perché, nel frattempo, la quantità di moneta in circolazione non era diminuita. Non è stato così, il che conferma che l’origine profonda dell’inflazione non era monetaria. Per contro, oggi non vi è alcuna garanzia che un «ritorno alla normalità» possa avvenire come nel 1985. Se questo dovesse rivelarsi impossibile da realizzare – sia perché il conflitto ucraino non consente il ritorno a una geopolitica pacifica, sia perché il picco di estrazione del petrolio non convenzionale è già all’orizzonte, o a causa di altre complicazioni impreviste che potrebbero impedire, per esempio, all’Arabia Saudita di aumentare in modo sostenibile la sua produzione di oro nero, nonostante le pressanti richieste di Washington –, potrà avvenire che, dopo un temporaneo calo dei prezzi che accompagnerà la recessione del 2022-23, si sperimenterà una situazione senza precedenti: una stagflazione in cui i prezzi continueranno a essere spinti al rialzo dai combustibili fossili, mentre l’economia occidentale (e quindi globale) ristagnerà a causa della «terapia» antinflazionistica delle sue banche centrali. Nell’eurozona, lo spettro della stagflazione è tanto più minaccioso in quanto il recente calo dell’euro (il cui valore quest’estate è sceso al di sotto di quello del dollaro, per la prima volta in vent’anni) implica che l’aumento dei prezzi delle importazioni alimenterà l’inflazione.
Inoltre – e questa seconda aggravante è ancora più minacciosa della precedente – da 40 anni abbiamo costruito un’architettura internazionale per la circolazione dei capitali e dei mercati finanziari che negli anni Ottanta era ancora in una fase embrionale[6]. Siamo ora al culmine di una doppia bolla speculativa che non esisteva ai tempi di Volcker e Reagan: una bolla finanziaria e una immobiliare nelle principali capitali occidentali.
La minaccia di un nuovo crollo finanziario
Non è un segreto che le attività finanziarie sono oggi sopravvalutate. Gli indici azionari sono aumentati del 320% dal 2008, mentre l’economia reale globale non è cresciuta nemmeno del 30%, un rapporto di uno a dieci in termini reali. Non è quindi la creazione di valore economico, ma la speculazione che spiega in gran parte l’aumento dei prezzi degli asset. Come è stato possibile? Grazie alla politica dei tassi di interesse straordinariamente bassi praticata dalle banche centrali dopo il 2008.
Certo, alcuni hanno giustificato tali politiche monetarie non convenzionali con il fatto che, senza di esse, il sistema bancario mondiale, molto indebolito, non sarebbe probabilmente sopravvissuto alle conseguenze della crisi del 2008. Questa spiegazione è convincente solo a metà: infatti, se le politiche monetarie accomodanti delle banche centrali avessero semplicemente agito come una morfina per permettere al «malato» finanziario di non soccombere alle sue ferite, il tempo risparmiato grazie a questa terapia avrebbe dovuto logicamente essere utilizzato per sanare il sistema finanziario internazionale. Tuttavia, nonostante le numerose promesse e un’impressionante mole di lavoro, relazioni, incontri, vertici internazionali ecc., ben poco è stato fatto per mettere in sicurezza il sistema bancario e finanziario occidentale.
Nell’eurozona, l’Unione bancaria europea, istituita nel 2009 per mettere in sicurezza il sistema bancario, si è rivelata ampiamente insufficiente. In una relazione per il Parlamento europeo del 2015 ho dimostrato che, in caso di reiterazione di una crisi come quella del 2008, gran parte delle banche dell’eurozona sarebbero fallite in assenza di ingenti aiuti di Stato[7]. Sul versante statunitense, le megabanche hanno compiuto sforzi concreti per ricapitalizzarsi e sono meno fragili rispetto al 2007 o alle loro controparti europee. Questo è probabilmente uno dei motivi per cui la Fed si dimostra più «coraggiosa» della Bce. Essa non teme (troppo) di mandare in bancarotta le sue maggiori banche, mentre la Bce sa bene che un improvviso rialzo dei tassi di interesse può essere fatale per il sistema bancario europeo, che sopravvive dal 2008 solo grazie al supporto vitale di Francoforte. Il paradosso è che, finora, il sistema bancario europeo dava l’impressione di «sopravvivere» molto bene, raccogliendo di nuovo profitti colossali (con rendimenti sulle azioni bancarie del 10-15% annuo, mentre l’economia reale cresceva 5 volte più lentamente), che hanno alimentato l’illusione che la pagina del 2007-2009 fosse stata voltata. In realtà, l’euforia dei profitti bancari era semplicemente dovuta alla generosità della Bce: l’enorme flusso di ossigeno artificiale ha causato l’ebbrezza delle banche private che, improvvisamente, si sono «dimenticate» di ripulire i propri bilanci. Nonostante i ripetuti richiami all’ordine da parte del Fondo monetario internazionale[8], esse continuano a essere pericolosamente sottocapitalizzate e si lanciano nel green washing, pur sapendo che la transizione ecologica porterà alla fine del loro business model dopato dai combustibili fossili[9].
Nel 2014, il fortissimo calo dei prezzi dell’energia, unito alla repressione salariale (che dagli anni Novanta ha rallentato l’adeguamento dei salari reali) e al riorientamento del credito bancario verso i mercati finanziari a scapito dell’economia reale, ha portato alla deflazione, ossia a un’inflazione negativa (molto lieve a fine 2014). Nell’agosto 2014, il primo ministro francese Manuel Valls ha persino lanciato una alerte à la déflation. Preoccupata di vedere l’Europa sprofondare nella deflazione, la banca centrale di Francoforte ha quindi avviato i suoi imponenti acquisti di debito pubblico e, in misura minore, di obbligazioni societarie private attraverso la creazione di moneta senza «sterilizzazione» (Asset Purchase Program [App]). Si tratta del cosiddetto quantitative easing. Tra la fine del 2014 e il 2018 la Bce ha iniettato oltre 3.800 miliardi di euro nell’ambito del suo programma di acquisto di asset, mentre il Pandemic Emergency Purchase Program (Pepp), avviato nel 2020, ha comportato fino a 140 miliardi di euro di acquisti mensili, per un totale superiore ai 1.700 miliardi di euro nel 2022[10].
Questa creazione monetaria ex nihilo era però indiretta, perché i suoi beneficiari erano gli investitori istituzionali (banche, assicurazioni, fondi pensione ecc.). Tuttavia questi investitori hanno essenzialmente utilizzato questa manna di denaro gratuito per finanziare la speculazione sui mercati finanziari. In un mondo di bassi tassi di interesse, la speculazione finanziaria è molto più redditizia di qualsiasi investimento in economie reali con un tasso di crescita annuale inferiore al 3%. Invece, una scommessa finanziaria a leva alta può rendere fino al 30% all’anno. Abbassando i tassi di interesse di riferimento, la Bce ha quindi consentito agli Stati di indebitarsi a un costo inferiore, ma in cambio ha alimentato la più grande bolla speculativa finanziaria della storia e ha anche ridotto il rendimento dei risparmi dei cittadini – investiti, ad esempio, in assicurazioni sulla vita –, i cui fondi in euro sono impiegati in obbligazioni pubbliche. Gli unici che hanno veramente beneficiato di questa politica senza precedenti sono gli speculatori finanziari.
Oltreoceano, la politica di quantitative easing della Fed ha provocato una bolla finanziaria e immobiliare molto simile. Il dilemma che le banche centrali devono affrontare oggi è il seguente: se continuano la loro politica di diluvio monetario a tassi bassi, continueranno ad alimentare l’inflazione delle attività finanziarie, ma saranno accusate (a torto o a ragione, non importa) di alimentare anche l’inflazione interna. Inoltre, l’inflazione rende i tassi reali negativi, anche a lungo termine, il che significa che il mondo obbligazionario ormai sta perdendo denaro, invece di farne guadagnare ai suoi ricchi risparmiatori. Il mantenimento di tassi nominali troppo bassi è quindi considerato insostenibile di fronte alle proteste degli obbligazionisti.
Ma, aumentando i loro tassi, le banche centrali fanno correre un rischio colossale alla sfera finanziaria. Infatti, gli investitori che oggi detengono le attività finanziarie i cui prezzi sono esplosi nell’ultimo decennio le hanno acquisite, il più delle volte, solo indebitandosi. In effetti, il debito privato sta ora raggiungendo livelli senza precedenti nella storia, l’equivalente del 160% del Pil mondiale, molto più del debito pubblico. Gli speculatori devono ripagare il loro debito, o almeno gli interessi sul loro debito. In un’economia reale la cui crescita rimane molto debole e in cui la Cina ormai rifiuta di reinvestire i suoi surplus commerciali nella sfera finanziaria occidentale[11], questi speculatori indebitati hanno poche entrate al di fuori della sfera finanziaria per ripagare i loro debiti. Essi hanno quindi assolutamente bisogno del proseguimento di una politica monetaria molto accomodante per poter prendere in prestito la liquidità necessaria per ripagare i loro debiti. In altre parole, il mondo delle azioni e dei loro derivati ha bisogno di trasformare la politica monetaria in un vasto «schema Ponzi»[12] per evitare il crollo. Il mondo delle obbligazioni e del reddito fisso nominale, al contrario, ha bisogno di una riduzione immediata dell’inflazione e di un aumento dei tassi per evitare il ristagno. È molto difficile dire oggi quale di questi due attori finirà per imporre i propri interessi alle banche centrali. Soprattutto perché sta entrando in scena un terzo attore: gli stessi Stati sovraindebitati.
Verso una crisi del debito pubblico europeo?
La terza importante differenza tra il «successo» illusorio della politica Volcker degli anni Ottanta e il periodo attuale è legata, in questo caso, ai debiti pubblici. Mentre l’Africa subsahariana era già alle prese con una crisi di insolvenza sovrana quarant’anni fa, i debiti pubblici iniziavano appena a crescere nei Paesi occidentali. Oggi hanno superato il 100% del Pil nella maggior parte dei Paesi già industrializzati. Non esiste una soglia «sacra» oltre la quale il debito pubblico di un Paese comporti necessariamente il fallimento. L’economista Kenneth Rogoff ha cercato di dimostrare che il 90% del Pil era il Rubicone da non attraversare, prima che uno studente dimostrasse a sua volta che i suoi calcoli erano sbagliati[13]. Nel frattempo, il Giappone esibisce un debito pubblico superiore al 250% del suo Pil da più di un decennio e non è ancora andato in default. Quanto alla Grecia, il suo rapporto debito pubblico-Pil è oggi intorno al 200%, superiore al livello di quando è iniziata la «crisi del debito pubblico greco» nel 2010. Il piano di aggiustamento strutturale imposto ad Atene dal 2010, a costo di distruggere gran parte della sua economia e dei suoi servizi pubblici, si è rivelato inutile.
I lavori che conduciamo con il mio team alla Georgetown University dimostrano che, nel caso di un Paese che, come il Giappone, ha il controllo della propria moneta[14], non è un’unica soglia, ma tutta una serie di parametri che devono essere presi in considerazione per giudicare la sostenibilità del debito pubblico: ad esempio, nel caso in cui maggiore è la quota dei salari nel Pil, minore è il tasso di disoccupazione e minore è il debito privato, tanto più un Paese può permettersi di avere un debito pubblico elevato a condizione di finanziare investimenti pubblici utili[15].
Per anni la Banca centrale di Francoforte ha ritenuto di essere autorizzata a far piovere liquidità mantenendo un tasso di riferimento molto basso, perché questa politica monetaria sembrava non avere alcun impatto inflazionistico, mentre in realtà l’inflazione era nascosta nelle bolle immobiliari e finanziarie[16]. Ora, ancora convinta che sia la quantità di moneta in circolazione a determinare l’inflazione, la Bce vuole prosciugare il diluvio che essa stessa ha generato. Il problema è che, non essendo più manipolati artificialmente verso il basso, i tassi di interesse sui debiti pubblici dei Paesi dell’eurozona hanno immediatamente iniziato a salire fortemente, per convergere verso un livello coerente con lo stato reale delle finanze pubbliche europee e dell’inflazione. La Germania è tornata a tassi vicini al +1,5%, e l’Italia si avvicina già al +4%. Sarebbe logico che i tassi di prestito dei Paesi dell’eurozona raggiungessero il livello di inflazione più un premio per il rischio (che dipende dalla valutazione della solvibilità di un Paese da parte dei mercati finanziari), il che dovrebbe portarli all’interno di un range compreso tra l’8% (per la Germania) e il 12% (per l’Italia). Anche se i criteri utilizzati dai mercati finanziari per valutare la solvibilità di un debito sovrano hanno spesso scarse basi scientifiche, un tale livello dei tassi di interesse accelererà inevitabilmente l’aumento del debito pubblico di questi Paesi. Questo ciclo si autoalimenterà fino al punto in cui alcuni fondi speculativi (contro i quali non è stato fatto nulla per proteggere le nostre finanze pubbliche) sceglieranno di scommettere sul mancato rimborso di questo o quello Stato europeo, come hanno già fatto a spese della Grecia nel 2010.
Esiste quindi il rischio concreto che il crollo finanziario – del mondo obbligazionario o del mondo azionario, o perfino di entrambi – sia accompagnato, o forse preceduto, da una crisi del debito pubblico europeo. La Bce si trova quindi di fronte a un secondo delicato dilemma: o continua ad acquistare il debito pubblico di Paesi che rischiano di non sopportare il rialzo dei tassi di interesse (in primo luogo, l’Italia), ma, in questo caso, continuerà ad alimentare l’inflazione – ed è probabile che la Germania si opponga –; oppure si astiene dal sostenere i Paesi le cui finanze pubbliche appaiono fragili (a torto o a ragione, non importa). Non si potrà più accusarla di alimentare il fuoco dell’inflazione, ma per l’Italia probabilmente si dovranno attuare procedure simili a quelle attuate per la Grecia, non appena i mercati finanziari si spaventeranno: porla sotto la tutela della Troika, imporre un piano di austerità che distruggerà l’economia italiana[17] e sarà seguito dalla privatizzazione di una parte sostanziale dei suoi beni (aeroporti, società pubbliche, isole, porti ecc.). Tuttavia, il caso greco ci dimostra che queste «ricette» non riducono il rapporto debito-Pil: distruggendo l’economia, le misure di austerità riducono il Pil almeno altrettanto rapidamente del debito. Roma, però, non è Atene, e si può supporre che il caos politico che ne deriverebbe potrebbe portare a un’uscita dall’eurozona. È questo scenario negativo che la Bce cerca di evitare e che giustifica i suoi indugi: a luglio ha aumentato il tasso di riferimento solo di 0,5 punto, annunciando al contempo la fine dell’App e del Pepp. Christine Lagarde prevede inoltre di implementare un programma Tpi (Transmission Protection Instrument) che autorizza riacquisti illimitati del debito pubblico. Tuttavia, per sfuggire alle critiche di alimentare l’inflazione, il Tpi prevede che la Bce non creerà nuova liquidità monetaria: si limiterà a reinvestire il denaro che recupererà dal rimborso del vecchio debito. È chiaro a tutti che questo limiterà di fatto in modo considerevole il potere d’azione della Bce e una banca come Ubs ha già criticato apertamente l’inefficacia di questo meccanismo.
Infine, rimane l’idea di una futura implementazione di un euro digitale, una criptovaluta emessa dalla Bce. I suoi promotori sostengono che permetterebbe a qualsiasi risparmiatore europeo di sottoscrivere il debito sovrano europeo. Tre obiezioni, tuttavia: 1) Le criptovalute richiedono molta energia per far funzionare i loro algoritmi di crittografia. Sarebbe un grave errore ecologico. 2) Non c’è bisogno di un euro digitale per consentire ai cittadini europei di prestare i propri risparmi agli Stati. In Francia, tutti potevano sottoscrivere Buoni del Tesoro fino a quando non è stato vietato negli anni Settanta, per costringere lo Stato a finanziarsi sui mercati. 3) Da anni le banche europee sono entusiaste del passaggio all’euro digitale. Perché? Ciò consentirebbe loro di imporre collettivamente commissioni di gestione proibitive sui conti di deposito dei risparmiatori europei, senza che questi ultimi possano tutelarsi ritirando il proprio denaro: non si può conservare il denaro digitale sotto il materasso.
In realtà, i Paesi «falchi» del Nord Europa – Germania, Austria, Paesi Bassi, Finlandia – hanno predisposto almeno dal 2016 un piano per un’uscita coordinata dall’eurozona con la creazione di una «zona Marco»[18]. Se i Paesi del Nord Europa si separeranno dai paesi dell’Europa meridionale, è probabile che la Francia di Emmanuel Macron si sentirà poi obbligata a seguire la Germania in questa avventura, per preservare una moneta comune con il suo vicino d’oltre Reno, anche a costo di abbandonare l’Italia, sacrificare il progetto europeo e rischiare di diventare la «Grecia del Nord». Si capisce ora perché le recenti decisioni delle nostre banche centrali non hanno nulla di «tecnico», ma, al contrario, dipendono da scelte politiche importanti? È tempo che queste decisioni siano sottoposte a una deliberazione democratica.
Come fare altrimenti?
Ci sono, tuttavia, molti modi per garantire la stabilità del sistema finanziario globale e la continuità del progetto europeo. Ci vorrebbe molto più spazio di quello consentito da questo articolo per sviluppare i dettagli di queste politiche alternative. Mi si perdonerà quindi di essere breve.
La prima cosa da fare, mi sembra, è praticare il controllo dei prezzi. Ciò è stato fatto dall’amministrazione Roosevelt durante la Seconda guerra mondiale, attraverso l’istituzione dell’Office of Price Administration nel 1941, che controllava i prezzi di prodotti al consumo e degli affitti[19]. Certo, si dirà, ma non siamo (ancora) in guerra. A questa obiezione bisogna rispondere che l’urgenza di attuare la transizione ecologica e di adattarsi al riscaldamento globale e alla scomparsa della biodiversità già in atto è almeno altrettanto pressante della sopravvivenza di un’economia di guerra. Quest’estate il Sud Italia e alcune province francesi hanno iniziato a razionare l’acqua potabile. È noto che l’Italia perderà almeno il 40% delle sue riserve d’acqua dolce entro il 2040, se non si interviene tempestivamente. Il riscaldamento climatico è un «nemico» molto più potente – e persistente – di qualsiasi esercito umano. L’Europa dovrà tornare alle carestie dell’ Ancien Régime prima di rendersi conto della gravità della situazione?
Inoltre, si stanno già levando delle voci per sostenere che parte dell’inflazione che stiamo vivendo non è dovuta all’aumento dei costi, ma a dei «parassiti» che cercano di trarne vantaggio per aumentare il proprio profitto[20]. È qui che si impone un controllo dei prezzi. Non farà scomparire l’inflazione incomprimibile, causata dall’aumento dei costi di estrazione dei combustibili fossili e delle materie prime, ma consentirà di limitarne significativamente gli effetti, vietando, ad esempio, margini superiori al 20%. Oggi, il controllo sui prezzi sembra una misura medievale o degna della Corea del Nord, poiché le nostre menti sono plasmate dall’ideologia neoliberista. In Francia, invece, un ministro delle Finanze liberale come Raymond Barre aveva attuato un controllo dei prezzi. Non c’è nulla di stravagante in questo.
Peraltro, una volta compreso che l’attuale inflazione è anzitutto determinata dalla progressiva scarsità di accesso ai combustibili fossili (a cominciare dal petrolio) e di alcune materie prime, dovrebbe essere evidente che il modo migliore per proteggersene consiste nel ridurre la nostra dipendenza dal petrolio. Esistono scenari per eliminare gradualmente i combustibili fossili e decarbonizzare le nostre economie. Di recente ho pubblicato un rapporto che lo dimostra per la Francia[21]. E il costo di un simile scenario (2% del Pil all’anno fino al 2050) non è certo trascurabile, ma rimane accessibile a un’economia ancora ricca come quella francese. La riduzione della dipendenza delle nostre economie da determinate risorse naturali, destinate a diventare rare, è un processo complesso almeno quanto la decarbonizzazione, e molto meno compreso: consiste nel rinunciare alla miniaturizzazione dei nostri manufatti, alla microelettronica delle nostre vite e all’obsolescenza programmata dei prodotti «usa e getta». Richiede l’invenzione di un’industria low-tech di prodotti durevoli, facili da riparare e riciclare.
Dopo avere riportato l’inflazione a livelli tollerabili (tra il 2% e il 4%[22]) grazie al controllo dei prezzi e alla riduzione della nostra dipendenza dai combustibili fossili (poi, quanto prima, dei minerali critici), le Banche centrali non avrebbero più bisogno di aumentare i tassi di interesse o di porre fine alla loro politica di acquisto del debito pubblico. Per quanto riguarda le economie in difficoltà come l’Italia o la Grecia, piuttosto che passare attraverso i Tpi, sarebbe probabilmente più efficace finanziare il loro sostegno attraverso una nuova emissione di debito comunitario, simile ai coronabond emessi nel 2020. A condizione, ovviamente, di finanziare il rimborso di questo debito europeo con nuove entrate fiscali, come una carbon tax alle frontiere dell’Eurozona o una tassa sulle transazioni finanziarie. Nonostante ciò, dovrebbe forse continuare la politica del diluvio monetario che ha contribuito essenzialmente a gonfiare le bolle speculative e ad ampliare le disuguaglianze di reddito? No, a mio avviso. Le banche centrali dovrebbero riorientare la loro politica monetaria verso il finanziamento dello scenario di transizione a cui ho appena accennato: un Green New Deal degno di questo nome, sia in Europa sia negli Stati Uniti[23]. Potrebbero, ad esempio, condizionare l’acquisto del debito pubblico all’attuazione di un tale piano di transizione ecologica e condizionare il loro tasso di interesse di riferimento all’«ecologizzazione» della politica creditizia delle banche commerciali[24].
Il punto decisivo è che una tale politica non avrebbe motivo di alimentare l’inflazione contrariamente a quanto credono gli economisti monetaristi, mentre continuerebbe a iniettare denaro: nell’economia reale, questa volta, e non più nei mercati finanziari.
Concludo con questo elemento di analisi economica che è alla base di tutta questa disamina. Che cos’è infatti il livello generale dei prezzi se non il rapporto tra la quantità di moneta in circolazione e la dimensione dell’economia reale[25]? Se il denaro aumenta senza aumentare la dimensione della torta, cioè senza creare valore, allora sì, ci sarà inflazione. Questo è ciò che osserviamo ogni giorno nei mercati finanziari e immobiliari. D’altra parte, se la dimensione della torta aumenta all’incirca alla stessa velocità della quantità di denaro utilizzata per misurarne il valore, allora non può esserci inflazione. Questo è il motivo per cui alcuni Paesi sono riusciti a mettere in pratica ingenti piani di investimento senza spinte inflazionistiche. Si teme davvero che un Green New Deal degno di questo nome non crei abbastanza valore economico per evitare una spirale inflazionistica? La risposta è ovviamente incerta, ammettiamolo. E varierà da un Paese all’altro.
Ma se questo, al contempo, ci permette di evitare sia le peggiori conseguenze della catastrofe ecologica, sia la stagflazione che durerà finché saremo dipendenti dal petrolio e da altre fonti minerarie, sia un altro crollo finanziario, sia una nuova crisi dei debiti pubblici europei, non è un rischio che vale la pena correre? Un Green New Deal internazionale e coordinato dovrà ormai tener conto anche della crisi alimentare globale che potrebbe derivare dall’inflazione dei prodotti agricoli nei Paesi del Sud del mondo. Poiché una cosa è certa: l’aumento dei tassi d’interesse delle Banche centrali occidentali non consentirà di lottare contro le carestie che si preannunciano.
tratto da La Civiltà Cattolica 2022
[1]. Cfr Banca Mondiale, Indice dei prezzi dell’energia.
[2]. Cfr IEA, World Energy Outlook, OECD, 2010.
[3]. Cfr V. Court – F. Fizaine, «Long-Term Estimates of the Energy-Return-on-Investment (EROI) of Coal, Oil, and Gas Global Productions», in Ecological Economics 138 (2017) 145-159.
[4]. Allo stesso modo, una delle due cause identificate dalla Nasa e dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti come suscettibili di impedire alle forze armate statunitensi di portare a termine le proprie missioni nel decennio in corso era rappresentata dai blackout elettrici (le pandemie erano la seconda causa): cfr United States Army War College, Implications of Climate Change for the U.S. Army, 2019. Per un modello economico che tenga conto dell’energia e delle materie prime in modo compatibile con le prime due leggi della termodinamica: cfr G. Noel – G. Giraud – Ch. Goupil, «Modelling the Economy as a Dissipative Structure», in corso di pubblicazione.
[5]. Nel marzo e poi nel dicembre del 1980, il governatore della Fed, Volcker, portò il tasso di interesse a breve termine al 20% per contenere l’inflazione a due cifre.
[6] . Cfr Rawi Abdelal, Capital Rules. The Construction of Global Finance, Harvard University Press, 2009.
[7]. Cfr G. Giraud – T. Kockerols, Making the European Banking Union Macro-Economically Resilient: Cost of Non-Europe Report, European Parliament, 2015.
[8]. Cfr IMF, Global Financial Stability Report: October 2016.
[9]. Cfr Institut Rousseau, Actifs fossiles, les nouveaux subprimes? Quand financer la crise climatique peut mener à la crise financière, 2021.
[10]. Volendo fare un paragone, le entrate nette annuali dello Stato francese ammontano a circa 240 miliardi di euro.
[11]. Sia perché Pechino preferisce reinvestirli nel mercato interno, sia perché la bilancia commerciale cinese con l’Occidente è ormai quasi in pareggio.
[12]. Lo «schema Ponzi» è un modello economico di vendita truffaldino, ideato da Charles Ponzi (1882-1949), che promette forti guadagni ai primi investitori, a discapito dei nuovi investitori, a loro volta vittime della truffa.
[13]. Cfr C. Reinhart – K. Rogoff, «Growth in a Time of Debt», in American Economic Review 100 (2010/2) 573-578. Rogoff è stato capo economista del Fmi e Reinhart è attualmente capo economista della Banca Mondiale.
[14]. Nel senso che il 95% del debito sovrano giapponese è detenuto da cittadini giapponesi e che, se necessario, la Banca centrale del Giappone può rifinanziare lo Stato. Questo non è più il caso dei Paesi dell’eurozona, ai quali è stato tolto il potere di creare denaro per affidarlo a un organismo indipendente, la Bce. Inoltre, il 60% del debito pubblico della Francia, e il 30% di quello dell’Italia, ad esempio, è detenuto da non residenti.
[15]. Ciò conferma le tesi difese dall’economista Mariana Mazzucato sul tema dello Stato imprenditore.
[16]. Purtroppo, i prezzi degli asset finanziari e immobiliari non sono presi in considerazione nel calcolo dell’obiettivo di inflazione della Bce. Questa «svista» non ha alcuna base scientifica.
[17]. Il piano di aggiustamento strutturale imposto alla Grecia dal 2010 ha fatto perdere più di un quarto del suo Pil, ha distrutto la sua economia e ha portato alla privatizzazione della maggior parte dei suoi beni pubblici, senza risolvere in alcun modo il «problema» del debito pubblico, che rappresenta ancora il 180% del Pil greco, oggi come nel 2010. Ma era davvero questo l’obiettivo?
[18]. Sono stato informato di questo piano segreto dal governatore della Banca centrale austriaca nel 2016.
[19]. 30.000 dipendenti sono stati assunti dalla National Recovery Administration per controllare l’andamento dei prezzi al consumo in tutto il Paese. In Francia, il controllo dei prezzi è perfettamente legale e regolarmente praticato nei suoi territori d’oltremare, previa consultazione tra autorità pubbliche, imprese e utenti.
[20]. Michel-Edouard Leclerc, responsabile di una delle più grandi catene di distribuzione francese, ha chiesto, in un’intervista del 30 giugno 2022 a BFMTV, la creazione di una «commissione d’inchiesta sulle origini dell’inflazione», perché, secondo lui, «la metà degli aumenti di prezzo richiesti dai produttori non sono trasparenti, ma, al contrario, sono sospetti». Cfr https://tinyurl.com/mru88sty
[21]. Cfr Institut Rousseau, 2% pour 2°C: Les investissements publics et privés nécessaires pour atteindre la neutralité carbone de la France en 2050, 2022.
[22]. Molto prima della ripresa dell’inflazione, Olivier Blanchard aveva proposto di portare l’obiettivo di inflazione delle banche centrali al 4%. Mi sembra una proposta molto ragionevole. La soglia del 2% è ampiamente arbitraria, a condizione, ovviamente, che i salari e le pensioni siano indicizzati all’inflazione.
[23]. Negli Stati Uniti, l’amministrazione Biden è finalmente riuscita a far passare l’Inflation Reduction Act che consentirà di finanziare alcune opere essenziali per la transizione energetica. Ma anche il progetto molto più ambizioso, da 3.000 miliardi di dollari, Build Back Better, che il governo non è riuscito a fare approvare dal Congresso, era già una versione ridimensionata del Green New Deal da 7.000 miliardi di dollari, originariamente concepito dal team di Sanders.
[24]. Molti altri incentivi potrebbero essere applicati al settore finanziario. Non entro qui nei dettagli. Cfr G. Giraud, Transizione ecologica. La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia, Bologna, Emi, 2014; Id., La rivoluzione dolce della transizione ecologica, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2022.
[25]. In questo caso, si dovrebbe tener conto delle variazioni della velocità di circolazione della moneta. Questa è una semplificazione; per approfondimenti, cfr E. Dossetto – G. Giraud, «Monetary velocity and monetary policy in an imperfectly competitive, stock-flow consistent dynamics», in Environmental Justice Program’s Working paper, Georgetown University, 2022.