Sono bastate tre righe a Giorgia Meloni per ribadire che la posizione del governo sulla questione salariale è sostanzialmente quella di Confindustria. Il problema dei bassi salari, secondo la Presidente del Consiglio, non è l’assenza di un #salariominimo, ma le troppe tasse.
Il che, per certi versi, è anche vero: ma siamo sicuri che abbassando le tasse gli imprenditori destinino tutta la quota risparmiata ai salari? O, come tutti gli sgravi e i contratti capestro introdotti in questi anni, questo taglio delle tasse serve solo a diminuire, sottraendolo al gettito fiscale dello stato, il costo del lavoro e quindi fornire all’imprenditoria l’occasione per aumentare il margine di profitto?
L’idea di Meloni – in malafede o per ignoranza – è che magari questi profitti venissero reinvestiti, sempre in nome di quella teoria dello sgocciolamento alla quale ormai non credono più neanche i mercati, come ha dimostrato il caso inglese e la (ex) prima ministra Liz Truss.
Reinvestire i profitti è un tema fondamentale per risolvere uno dei problemi principali che nel nostro paese tiene ancorati i salari a minimi da fame: la scarsa produttività. Si lavora troppo, per salari bassissimi, e una produttività stagnante. Anche se cercano di farci credere il contrario ormai è stato ampiamente dimostrato che la scarsa produttività non dipende certo dal singolo lavoratore, e ha invece a che fare (molto) con il settore produttivo e con la struttura organizzativa industriale. In Italia la feroce deindustrializzazione ha lasciato una miriade di imprese che operano in settori a basso valore aggiunto.
Ancora, la bassa produttività, dipende da mancanza di investimenti, mancanza di politiche industriali a livello nazionale, ossessione per il profitto momentaneo invece della visione a lungo termine. L’introduzione di un salario minimo costringerebbe le imprese, non potendo più fare leva sull’abbassamento del costo del lavoro, ad innovare e innovarsi. Con evidenti ricadute benefiche per l’intero paese.