Bersani: caro Enrico nel Pd non torno, facciamo insieme una cosa nuova

Politica

Intervista a Repubblica

di Luciano Nigro

«Entrare nel Pd ora? Letta ha già abbastanza problemi». Pier Luigi Bersani risponde a modo suo alla sfida di Enrico Letta, quasi un fratello politico per l’ex segretario del Pd, sconfitto anche lui da Matteo Renzi e uscito dal partito con un gruppo di ex Pci-Pds-Ds-Pd per dar vita ad Articolo Uno. Ora che Letta è tornato si prepara il ritorno di un altro fondatore? Bersani propone un’altra via. Chiede di rifare daccapo il centrosinistra. «Prendiamola da fuori – dice – usciamo dalla solita cerchia, apriamoci al mondo esterno, se vogliamo vincere. Perché ora, ne sono convinto, si può vincere».

Da domenica scorsa ha ancora senso per lei stare da un’altra parte? Il tassista poco fa mi ha detto: Bersani faccia pochi arzigogoli e torni a casa.

«Già. Ma a chi servirebbe una fusione di vertice? Non possiamo tirarci su per le stringhe delle scarpe da soli. Sarebbe un errore. Dove vanno soggetti troppo piccoli e deboli e un Pd che appare più respingente che attrattivo?».

Vuol dire che l’arrivo di Letta non cambia le cose?

«Le cambia eccome. Ma sa qual è la novità più evidente portata dal segretario del Pd? Che vuole vincere con un campo di centrosinistra largo alleato con i Cinquestelle. Questo a Zingaretti non lo hanno permesso, Letta può farlo. La domanda vera è come procediamo».

Lei cosa pensa di fare?

«Apriamoci. Organizziamo assieme un percorso di partecipazione che coinvolga mondo del lavoro, associazioni, mondo della cultura, esperienze giovanili… Articolo Uno ha fatto avere a tutti, partiti e altri soggetti, qualche idea per quella discussione».

Una costituente per il centrosinistra? Un’agorà?

«Io ci sto, chiamiamola come vogliamo. Se il Pd, come dice Ezio Mauro, non è più il padrone di casa ma un inquilino di rilievo».

Insomma, qualcosa che assomiglia all’Ulivo?

«Solo nella capacità di dare orizzonti a una sinistra ampia e plurale, fatta non solo di politica, ma anche di società».

Non trova strano che lei e Letta non vi troviate nello stesso partito?

«La nostra amicizia tradotta in politica è complementarietà, non sovrapposizione. Eravamo in due partiti diversi quando ci siamo conosciuti e ci siamo intesi sull’idea di costruire qualcosa di nuovo. Oggi la situazione non è diversa: c’è da creare un progetto nuovo e le differenze, che pure rimangono, devono diventare ricchezza».

Lo ha sentito in questi giorni?

«Ci siamo massaggiati, e ci siamo visti spesso anche quando stava a Parigi. Sempre piuttosto in sintonia».

Condivide le sue prime mosse?

«Lo conosco e l’ho visto convinto, questo mi è piaciuto».

Lo Ius soli non è molto popolare tra i lavoratori.

«Il punto è che non va lontano un Paese che non riconosce come italiano un bimbo che va a scuola, figlio di gente che lavora e paga le tasse. Si vuole forse dire che la cittadinanza devono averla solo i bianchi? Certo, per noi la priorità va al mondo del lavoro e alla riduzione dell’ingiustizia sociale».

Ha un’idea sul come, lei che come Letta ama concretezza e cacciavite?

«Non potrebbe essere altrimenti, sono il figlio di un meccanico. Come ridurre l’ingiustizia? A Draghi per cominciare chiedo di colpire due palloni in avanti: una legge sulla rappresentanza che riconosca la validità erga omnes dei contratti firmati dai sindacati più rappresentativi dei lavoratori e delle imprese. Il tema è delicato, ma se non lo facciamo il mercato del lavoro diventa una giungla senza diritti per chi fatica. Il secondo è una riforma fiscale con forti contenuti di progressività».

E per la pandemia? Ci sono milioni di piccole imprese a rischio.

«Con questo virus soffrono tutti. Per prima cosa c’è da dare a chi soffre di più, chi si mette in fila alla Caritas e ai patronati sindacali. Il reddito di cittadinanza va corretto ma anche rafforzato. E più soldi servono pure per i ristori alle piccole imprese che arrivano troppo lentamente. Abbiamo bisogno di scelte concrete, non del populismo delle élite».

Con chi ce l’ha?

«Non certo con Draghi. Ma con quella parte della classe dirigente, delle imprese e dei giornali che ha demolito Conte, il quale gode di consenso popolare. Ed è ugualmente poco serio presentare Draghi come l’uomo dei miracoli. Non è rispettoso, non se lo merita. I Dpcm deve farli anche lui e con i vaccini deve farci i conti anche questo governo. Essere classe dirigente richiede equilibrio e senso della misura».

Che lezione ricava da quest’anno terribile?

«Che la salute e l’istruzione devono essere riconosciuti come beni universali e come tali vanno tutelati. Prendiamo la storia dei vaccini: è pensabile che i brevetti siano fatti per arricchire alcuni grandi gruppi? Non è il tempo di rendere le scoperte fruibili e utili per l’umanità? La remunerazione dei brevetti potrebbe venire non dal mercato, ma dall’Oms e dagli Stati. Oggi è il virus, ma domani il problema si pone con altri salvavita che stanno arrivando».

Che effetto le ha fatto l’addio di Zingaretti? Il Pd continua a divorare i suoi leader, capitò anche a lei. Ha rivissuto il film del 2013, l’imboscata dei 101, le dimissioni?

«Quando ti dicono “sono d’accordo” e poi, per darti uno schiaffo, mettono a rischio la presidenza della Repubblica, per me non c’è altra strada che lasciare. In altre culture uno sarebbe rimasto a sfidare i 101, ma questo avrebbe fatto a pezzi il partito. Il caso di Zingaretti però è diverso, le sue dimissioni sono arrivate dopo un lungo stillicidio».

Quando lei divenne segretario del Pd disse, con Vasco Rossi, “Dare un senso a questa storia”. Per lei un senso l’ha mai avuto?

«Forse un ruolo più strutturato degli iscritti e dei militanti combinato con un’apertura all’esterno avrebbe dato un altro esito. E invece è diventato un ibrido e ha vinto la logica di altre culture, quella delle correnti».

Il Pd è diventato come la Dc?

«Non direi, ma certamente più vicino a certe sue pratiche».

Per questo oggi vorrebbe un reboot, un riavvio del film?

«È l’intero centrosinistra ad avere bisogno di darsi un’identità misurata su problemi nuovi. Se noi allarghiamo il campo di una sinistra plurale e Conte porta a maturazione i 5 Stelle, possiamo farcela. E vincere».