Tendenze politico-ideologiche nella sinistra radicale europea

Sinistra

di Franco Ferrari – La sinistra radicale in Europa attraversa una fase difficile contrassegnata da divisioni e conflitti che hanno portato in paesi importanti come la Germania, la Francia, la Spagna e la Grecia in scissioni dolorose e contrasti sulla visione strategica. Anche nel 2019, quando si votò per il Parlamento europeo, che sarà rinnovato nel prossimo giugno, si definirono diversi progetti tra loro in parte contrapposti. In quel caso però era la dimensione transnazionale a differenziare i diversi partiti, mentre in questa occasione le divisioni passano all’interno dei singoli paesi, su linee di scontro non sempre chiarissime.

La sinistra radicale, così definita nel discorso politologico ed accademico (mentre all’interno si è cercato di indicarla con altri termini come “trasformatrice”, “alternativa”, “anticapitalista” o “sinistra” tout court) è stata definita come una “famiglia politica in sé” che non è mai riuscita a diventare fino in fondo una “famiglia politica per sé” (Hildebrandt e Baier). Ovvero mentre gli osservatori e gli analisti sono arrivati ad individuarla come un campo relativamente omogeneo, spesso al suo interno è stata attraversata da diverse linee di frattura sia ideologiche che programmatiche.

La ridefinizione di una “famiglia politica”

L’evoluzione dei diversi tentativi di organizzazione transnazionale possono fornire qualche indicazione sulla pluralità di prospettive e sulle questioni cruciali che la sinistra radicale non ha ancora compiutamente risolto. I primi anni ’90, a seguito della scomparsa dell’Unione Sovietica, hanno costretto sia le formazioni comuniste che le tendenze comuniste dissidenti a ridefinire la propria identità. Questo ha portato ad una serie di cambiamenti tra loro tutt’altro che omogenei. Un primo elemento di divisione è stato fra l’abbandono o il mantenimento di un’identità comunista. Ma anche questa diversa prospettiva si è poi articolata con percorsi diversi. Una parte delle forze di tradizione comunista si sono ricollocate sul versante della socialdemocrazia o della sinistra social-liberale (Italia in primo luogo) mentre altre hanno scommesso sull’emergere della nuova corrente di sinistra ecologista (Olanda, Catalogna). Altre componenti invece sono rimaste sul terreno della sinistra critica del capitalismo anche se spesso hanno inglobato le tematiche “verdi” a fianco di quelle più tradizionali del movimento operaio.

Tra le stesse forze che si sono mantenute sul terreno dell’ispirazione comunista vi è stata una netta divaricazione tra tendenze rinnovatrici o rifondatrici e altre continuiste se non addirittura restauratrici e fautrici di un ritorno a prima del 1956 (il PC greco).

Questa articolazione di posizioni ha influito sui primi tentativi di ricostruzione di un terreno minimo di confronto a livello transnazionale europeo. Tanto più che le diverse forze politiche oltre che dalla differenziazione ideologica erano (e in buona parte ancora sono) differenziate sul giudizio del processo di costruzione dell’Unione Europea di impronta neoliberista. Inizialmente non tutte erano ostili al trattato di Maastricht visto come un passaggio in direzione di un’Europa più strutturata e di dimensione più sovranazionale (posizione che poi è stata in generale rivista criticamente). Mentre altre restano ostili al progetto in sé.

Il primo tentativo di costruzione di una sede di confronto transnazionale è stato il Forum della Nuova Sinistra Europea (NELF nella sigla inglese). Fondato a Barcellona si poneva all’inizio come strumento per coagulare e definire un’area diversa da quella socialdemocratica ma anche distinta da quelle formazioni politiche che continuavano a definirsi comuniste e considerate come definitivamente sconfitte e non riformabili. Il Forum cercava di essere la proiezione del gruppo parlamentare europeo promosso inizialmente dal PCI che si era diviso dai partiti comunisti ostili al processo di costruzione dell’Unione Europea. Con il passaggio del PCI, diventato PDS, al gruppo socialista e all’Internazionale Socialista, il Forum doveva ripensare il proprio ruolo. Da strumento per la costituzione di una propria famiglia politica e con una forte proiezione all’avvicinamento ai partiti Verdi, il Forum iniziava ad inglobare anche forze comuniste e di altro orientamento, fino al punto da coprire quasi tutta l’area della sinistra radicale, ad esclusione delle componenti neo-staliniste e neo-trotskiste.

Il Forum svolse un ruolo per tutti gli anni ’90 e per un breve periodo all’inizio del nuovo millennio come sede di confronto programmatico tra i diversi partiti della sinistra radicale ma con una scarsa proiezione esterna e limitata influenza nel dibattito politico pubblico. Contemporaneamente si avviavano alcuni tentativi di riorganizzazione delle tendenze più circoscritte sul piano ideologico come quella comunista di tradizione “filosovietica” e quella, eterogenea al suo interno, cosiddetta “antirevisionista”, che raccoglieva quelle formazioni politiche, in Europa generalmente marginali, che avevano contestato la destalinizzazione e poi si erano a loro volta frammentate fra maoiste, filocinesi, filoalbanesi e così via. I partiti che si erano riconosciuti nel “movimento comunista internazionale” a direzione sovietica avevano inizialmente come punto di riferimento il PC Portoghese e poi il PC Greco che dalla metà degli anni ’90 iniziava ad organizzare dei seminari annuali internazionali di Partiti comunisti. Mentre la tendenza antirevisionista confluiva nei seminari promossi dal PT belga (che poi ha abbandonato quella prospettiva avvicinandosi sensibilmente a posizioni di sinistra radicale e non più di estrema sinistra).

Nel Parlamento europeo, al termine di un processo abbastanza complesso, si riusciva a ricostruire un gruppo unitario di tutte le forze a sinistra della socialdemocrazia e dei verdi, il GUE, che poi con l’allargamento dell’Unione inglobava nuove forze e in particolare la sinistra scandinava. Il gruppo manteneva un carattere esplicitamente confederale per sottolineare le differenze di identità e di strategia dei vari partiti. In questo caso il vincolo istituzionale esterno favoriva la costruzione di un gruppo unico anche se non sempre coeso. Con il cambiamento di denominazione in LEFT si è cercato di fare un passo avanti verso il superamento della natura confederale, anche se su questioni politicamente importanti il gruppo spesso si differenzia nel voto. In ogni caso resta lo strumento più importante di aggregazione e di convergenza della sinistra radicale europea. Solo il PC Greco ha deciso nel 2019 di uscirne per confluire nel gruppo misto, differenziandosi in questo dall’altro partito comunista considerato riferimento per le correnti più “ortodosse”, il PC portoghese.

Entra in scena il movimento “altermondialista”

Un impulso nuovo è venuto alla sinistra radicale europea dal movimento di critica della globalizzazione (impropriamente definito “no global”), ribattezzato, soprattutto nella sfera linguistica britannica, come movimento per la giustizia globale e, in quella francese, come altermondialista.

A partire da questo movimento si sono espressi due progetti politici transnazionali rivali. Il primo di questi (cronologicamente) è stato promosso soprattutto dalle formazioni neotroskiste, guidate dalla LCR francese di Alain Krivine che per una legislatura era riuscita ad entrare nel Parlamento europeo. Questa tendenza, che aveva ipotizzato la costruzione di un partito europeo si è poi consolidata nella formazione di un forum della “sinistra anticapitalista europea”. L’altro progetto che si è dimostrato più solido ed attrattivo ha dato vita al Partito della Sinistra Europea. Questo ha avuto come principali protagonisti il PRC italiano e la PDS tedesca, con Fausto Bertinotti e Lothar Bisky alla guida.

La corrente neotrotskista poteva contare a suo favore sulla promozione attiva di alcuni movimenti d’iniziativa europea su temi economici e sociali, sulla crescita del trotskismo francese nel processo di ricomposizione della sinistra di quel paese e sull’inserimento delle proprie organizzazioni nazionali (per lo più di piccole dimensioni) in altre formazioni plurali come lo stesso PRC, Izquierda Unida, il Bloco de Esquerda portoghese e così via. Restava però in contrasto con i partiti comunisti tradizionali ed era piuttosto intransigente nell’opposizione alla formazione e partecipazione a governi di sinistra. Un contrasto che pesava in particolare nei rapporti con il PC francese.

Il Partito della Sinistra Europea cercava di cogliere l’onda positiva del movimento altermondialista che aveva espresso i Forum Sociali Europei. Non a caso la prima presentazione pubblica del progetto avveniva in occasione del Forum di Firenze. Sul piano ideologico, l’SE (in italiano la sigla perde la P per non identificarsi col PSE socialdemocratico) definiva un solo vero discrimine, quello dell’antistalinismo, per il resto richiamandosi ad un ampio spettro di riferimenti della sinistra. Nella visione bertinottiana gli elementi principali a partire dai quali doveva definirsi il progetto era il forte collegamento con il “movimento dei movimenti”, lo spostamento del terreno principale del conflitto politico e sociale sulla dimensione europea e lo stretto collegamento tra lotta contro il neoliberismo e contro la guerra. Per quanto riguardava la dimensione organizzativa il PRC sosteneva la possibilità di iscrizione diretta alla Sinistra Europea, un meccanismo che doveva favore proprio la caratterizzazione sovranazionale del progetto.

La crisi dei debiti sovrani e la scommessa del governo di sinistra

Mentre il movimento altermondialista andava declinando scoppiava la crisi dei debiti sovrani in Europa, riflesso dello shock finanziario proveniente dagli Stati Uniti e dalla decisione politica di trasferirne gli effetti dalle banche allo Stato. Questa crisi ha aperto una nuova fase di conflittualità sociale ma a differenza del movimento partito da Seattle più che una vera mobilitazione comune si trattava della convergenza congiunturale di movimenti nazionali. In ogni caso questo ciclo conflittuale e l’opposizione diffusa alle politiche di austerità ha offerto una finestra di opportunità ad alcuni formazioni di sinistra radicale. In Grecia con Syriza, una aggregazione a sua volta favorita del movimento dei primi anni duemila, che offriva una sponda politica al movimento di piazza. In Spagna con una nuova forza politica che cercava di attuare la stessa operazione ma con una più accentuata rottura rispetto alla formazione tradizionale della sinistra radicale spagnola (Izquierda Unida).

Podemos rappresentava il tentativo più esplicito di tradurre in azione politica un nuovo progetto ideologico quello del populismo di sinistra, di cui si erano fatti promotori in particolare Ernesto Laclau e Chantal Mouffe. Si è trattato certamente della più significativa e coerente proposta di una nuova strategia della sinistra radicale, approfittando di quello che in una certa misura era un vuoto non ancora colmato dopo la crisi del movimento comunista nelle sue diverse varianti (marxista-leninista o eurocomunista).

Nelle elezioni europee del 2014 con la candidatura a Presidente della Commissione Europea di Tsipras, il Partito della Sinistra Europea cercava di proporsi come punto di riferimento per i movimenti di opposizione alle politiche di austerità volute dalla Commissione Europea e dalle forze politiche di centro-destra e di centro-sinistra che la sostengono. L’esito negativo dello scontro tra il governo di Syriza, che costringeva quest’ultimo ad accettare un nuovo memorandum, seppure accompagnato da qualche tentativo di mantenersi aperta la strada per misure sociali parzialmente correttive dell’austerità, apriva un conflitto molto aspro all’interno della sinistra radicale che aveva come protagonista da un lato il francese Melenchon e dall’altro lo stesso Tsipras.

Il populismo di sinistra e il “Piano B”

Dalla riflessione sulla vicenda greca nasceva un nuovo progetto transnazionale ispirato all’idea di un “Piano B”. Il Piano A era il cambiamento radicale dei trattati europei in senso antiliberista ma di fronte ad un probabile opposizione di altri governi a tale rivendicazione occorreva predisporre un Piano B, fondato sulla disobbedienza agli stessi trattati quando questi entravano in conflitto con le politiche perseguite da potenziali governi di sinistra. Questa proposta veniva considerata un modo concreto per sfuggire al dilemma obbligato tra l’obbedienza alle istituzioni europee e la pura e semplice uscita dall’Unione. Si trattava quindi di un modo per rendere credibile una proposta di governo di sinistra a fronte di quella che era vissuta, non a torto, come una perdita di credibilità in conseguenza della sconfitta subita dal governo di Syriza.

Il movimento per il Piano B raccoglieva però al suo interno diverse ispirazioni che hanno portato poi i suoi promotori ad operare scelte diverse. I vari appuntamenti tenuti in diverse città europee (Parigi, Roma, Copenaghen) erano caratterizzati dall’essere soprattutto incontri dei vertici di alcune formazioni politiche con una netta propensione all’azione istituzionale. Una diversa impostazione aveva l’incontro di Madrid, più rivolto ad una aggregazione di movimenti e di realtà sociali, sul quale influiva un progetto parallelo che rimetteva in campo le formazioni neotrotskiste francesi, spagnole e greche, che avevano in Besancenot il volto più popolare e nell’europarlamentare Urban, eletto in Podemos ma di Anticapitalistas, una delle organizzazioni trotskiste spagnole, il punto di riferimento più istituzionale.

Dal movimento per il piano B sono emersi due progetti transnazionali. Da un lato l’aggregazione di partiti attorno al progetto “Adesso il popolo!”, dall’altra il Diem25 di Varoufakis. Entrambi promossi in vista delle elezioni europee del 2019.

Al primo progetto partecipavano come promotori France Insoumise, Podemos e Bloco de Esquerda (quest’ultimo membro dell’SE), a cui si univano i tre partiti della sinistra scandinava (due dei quali, danesi e finlandesi anche membri dell’SE). In questo progetto confluivano due diverse ispirazioni ideologiche. Quella più nettamente populista di sinistra di Podemos e France Insoumise con quella rosso-verde ed euroscettica degli scandinavi. Il Bloco che si era spostato da posizioni altreuropeiste a un punto di vista più eurocritico (subendo per questo la scissione che ha dato vita a “Livre”), rappresentava in una certa misura un ponte tra le due.

Varoufakis si era staccato dal movimento per il Piano B per dar vita ad una vero e proprio movimento transnazionale con l’obbiettivo di una democratizzazione radicale dell’Unione Europa come condizione della sua salvezza. Contrastando quindi un ripiegamento sulla sovranità nazionale. Il progetto di Varoufakis si è articolato nella costituzione di partiti nazionali ancorati ad un unico soggetto (i vari Diem25 costituiti in Grecia, Germania e Italia) e un tentativo di partito europeo con il titolo di “Primavera Europea”, nel quale convergevano formazioni nazionali autonome da Diem25. Il limite che molti osservatori vedono in questa proposta sorge dalla difficoltà di costituire un populismo transnazionale (contrapposizione popolo/oligarchia europea) in un contesto in cui una vera identità europea a base popolare in realtà non esiste. Oltre a questo si rileva una notevole personalizzazione del movimento intorno alla presenza mediatica di Varoufakis. Rispetto al 2019, alcuni partiti che avevano aderito a “Primavera europea” sono scomparsi come il francese Generations di Benoit Hamon (ritiratosi a vita privata) o lo spagnolo Actùa (con il riavvicinamento di Llamazares a Izquierda Unida). Nel caso del polacco Razem, questo ha interrotto i rapporti con Diem25 per la posizione critica assunta da Varoufakis in relazione alla guerra in Ucraina.

L’aggregazione di “Adesso il popolo!” non è sopravvissuta alla campagna elettorale. Questo ha consentito per altro di mantenere un unico gruppo al Parlamento europeo con una distribuzione equilibrata dei ruoli più importanti tra i partiti maggiori (la vicepresidenza del Parlamento ad un esponente di Syriza, ora passato a Nuova Sinistra, la guida del gruppo a Linke e France Insoumise). Si può però ritenere che abbiano pesato sulla fine dell’esperienza la crisi della strategia populista di sinistra come l’influenza delle diverse strategie nazionali dei partiti che l’hanno promossa.

Per quanto riguarda le tendenze politico-ideologiche alternative mentre per quanto riguarda le formazioni neotrotskiste queste sembrano al momento fortemente indebolite dalla crisi del Nuovo Partito Anticapitalista francese (di cui oggi esistono due versioni contrapposte con lo stesso nome) che dal fallimento delle scissioni da Podemos in Spagna (Anticapitalistas) e dal PRC in Italia (Sinistra Critica).

La corrente neo-stalinista, costituita attorno all’unico partito di peso a livello nazionale, il PC Greco ha subito anch’essa una spaccatura attorno al giudizio da dare della guerra in Ucraina. Il KKE la giudica come un contrasto tra imperialismi egualmente negativi (come considera imperialista anche la Cina) mentre altre formazioni ritengono che, in nome dell’antimperialismo, si debba guardare con favore all’azione militare russa. Questi partiti si sono riuniti in una “Piattaforma mondiale antimperialista”, promossa dal Partito Socialista venezuelano che ha tenuto una conferenza in Grecia nel novembre scorso.

I comunisti greci hanno nel frattempo smantellato l’Iniziativa Comunista Europea costituita una decina di anni fa, paralizzata dai dissensi sull’Ucraina, e dato vita all’Azione Comunista Europea con un numero ridotto di piccoli partiti di poca e nessuna influenza ma ideologicamente solidali con i comunisti greci.

Resta al momento non prevedibili se le scissioni avvenute in Germania e in Grecia avranno un impatto a livello transnazionale e se si delineerà effettivamente una nuova tendenza politico-ideologica con una propria caratterizzazione.

Il ruolo del Partito della Sinistra Europea

Il Partito della Sinistra Europea (grazie anche al lavoro convergente della rete Transform! Europe) resta quindi il progetto politico transnazionale di maggior rilievo e di più larga convergenza. Deve fronteggiare però diverse difficoltà dovute al fatto che i due diversi momenti di incidenza della sinistra radicale che si sono registrati dalla sua nascita ad oggi hanno dato entrambi risultati nettamente inferiori alle aspettative. Il movimento per una giustizia globale non è diventato un soggetto permanente della scena politica (i Forum europei sono cessati) e non ha determinato quella europeizzazione del conflitto sociale che avrebbe dovuto costituire il fondamento dell’azione del Partito della Sinistra Europea. L’azione a livello di governi e di istituzioni ha subito una sconfitta in Grecia, non si è realizzata in Francia e ha assunto una diversa dimensione in Spagna (quella della collaborazione da posizioni minoritarie con la socialdemocrazia) non essendo riuscita in quel contesto a conquistare il predominio sul PSOE.

La Sinistra Europea quindi fatica a trovare una propria dimensione di iniziativa politica più ampia del mero ruolo di sede di confronto tra le diverse forze nazionali. Oggi restano in campo visioni strategiche diverse ma nessuna di queste sembra affermarsi come vincente o comunque prevalente sulle altre. Queste prospettive strategiche diverse (anche se non del tutto incompatibili) possono essere identificate in vari modi, tra cui quello del soggetto sociale sul quale ci si propone di fondare principalmente una strategia di trasformazione. Abbiamo visto come si siano incarnate nella dimensione transnazionale diverse ipotesi, in particolare quella basata sui movimenti (nascita della Sinistra Europea) e quella basata sul popolo (il movimento appropriatamente definito come “Adesso il popolo!). Mentre resta presente ma scarsamente definita sul piano dell’azione politica l’idea della classe come riferimento permanente per la costruzione di un’alternativa. D’altra parte sembra affacciarsi un’ipotesi che vede nella comunità nazionale la base indispensabile per fondare una proposta politica alternativa al neoliberismo, tale da garantire un’assetto democratico e la difesa del welfare state.

Dal documento emerso dall’ultimo congresso della Sinistra Europea a Vienna si possono estrarre alcune indicazioni ma anche evidenziare diverse questioni irrisolte. Restano una serie di affermazioni che individuano nel capitalismo e non solo nel neoliberismo il fondamento delle diverse crisi che si stanno sovrapponendo. Se è così però resta largamente indeterminato quale sia la visione dell’assetto sociale che dovrebbe sostituire il capitalismo e quale sia la strategia necessaria a introdurre degli elementi di rottura. Si accenna al tema della “democrazia economica” che sembrerebbe il momento più significativo di cesura sia a livello di struttura che a livello di assetto politico ma resta un’affermazione piuttosto generica.

Sempre nella dimensione ideologica si legge una riaffermazione del concetto (che ha un peso rilevante nella tradizione comunista) di “imperialismo” e conseguentemente di “anti-imperialismo”, definito come una delle caratteristiche del Partito della Sinistra Europea. Manca però una ridefinizione adeguata di entrambi i concetti lasciando spazio ad interpretazioni molto diverse, come si vede dalla mancanza di una reale convergenza e mobilitazione politica comune sul tema della guerra.

Per quanto riguarda la questione europea, sulla quale resta un ampio ventaglio di posizioni tra i vari partiti, si chiede la “revisione dei trattati” in quanto impediscono la costruzione di un’Europa “sociale e democratica”. L’obbiettivo è un’Europa che si basi sulla “sovranità popolare” e che sia rispettosa delle “libere scelte democratiche dei popoli sovrani”. Si tratta di formule che cercano di indicare un’alternativa al dilemma tra la costruzione di uno stato sovrano europeo (uno stato senza popolo e quindi strutturalmente antidemocratico) e il ripiegamento alla sovranità nazionale (e con essa al rischio di cedimento all’idea dello stato etnico).

Conclusione

Sono alcune delle molte questioni rispetto alle quali la sinistra radicale europea risulta nel suo complesso ancora inadeguata a fornire una risposta che sia teoricamente fondata da un lato e adeguata a formulare una strategia politica su cui basare un’azione di massa. E’ in parte questa mancanza di una “grande narrazione” alternativa sia alla logica neoliberista della competizione e del mercato, quindi del profitto, come principio regolatore dominante (sulla quale convergono sia la destra tradizionale che gran parte della socialdemocrazia), sia a quella della difesa dell’identità etnica come strumento di protezione dalle ricadute negative del neoliberismo sui ceti popolari, senza però metterne in discussione premesse e conseguenze, che è propria all’estrema destra.

Se il populismo di sinistra ha affrontato il tema della “narrazione” e della dimensione ideologica, le sue premesse poststrutturaliste, quindi non fondate sull’analisi dei processi materiali e sull’individuazione delle contraddizioni oggettive del capitalismo neoliberista come leva del cambiamento, ne hanno fortemente limitato le possibilità di successo permanente e non solo congiunturale. Resta assolutamente necessario un confronto che metta a fuoco le questioni principali, ridefinisca i fondamenti dell’azione politica della sinistra radicale e riesca a formulare una strategia all’altezza adeguata alla crisi in corso e che tenga conto delle molte esperienze concrete che si sono realizzate nei decenni scorsi. Se queste non hanno consentito finora un avanzamento significativo della prospettiva della trasformazione sociale e politica desiderata sono comunque ricche di insegnamenti dai quali non si può prescindere.