Bertinotti e il PD

Politica

Oscar Monaco – In un articolo pubblicato sul Riformista del 25 aprile, Fausto Bertinotti torna ad interloquire, pur indirettamente, col PD: indirettamente perché ne parla con un tono analitico descrittivo, a differenza di un altro articolo, sempre sul Riformista, dello scorso ottobre in cui avanzava direttamente l’idea provocatoria di una costituente nel quale assumeva una postura assertiva propositiva.
La costante, prima di addentrarmi nei contenuti messi in rilievo da Bertinotti, è che ad avanzare una proposta così sia proprio il leader dell’unica forza politica, di movimento e di governo, che ha avuto negli anni un ruolo significativo alla sinistra del partito riformista maggiore, riannodando il filo di una storia comune che tanti – sia nel Pd che più a sinistra – avevano erroneamente creduto fosse andata perduta; il che rappresenta a mio avviso uno degli elementi politicamente più rilevanti.
Bertinotti offre alcune sollecitazioni degne di nota sulla natura del PD e sul tema del riformismo sulle quali mi sento di esprimere la mia opinione non richiesta.
La natura o l’identità di un soggetto politico, o di una qualsiasi altra aggregazione umana, è necessariamente mutevole perché muta costantemente la materia prima che lo compone, e questa evidente banalità ci è in realtà utile per capire che se è possibile individuare un punto di crisi, nel senso etimologico ancor prima che politico che il verbo “krino” ci consegna, ossia dividere, separare, questo sta proprio nella separazione diacronica tra la fondazione e il fallimento, conclamato sotto i colpi della pandemia, della dottrina che ha dominato la politica occidentale a partire dall’ultimo quarto di secolo dello scorso millennio. Il PD infatti nasce proprio nel tentativo di portare il pensiero neoliberale, nel punto più alto della sua espansione egemonica, ad una sintesi politica con le tradizioni socialdemocratica e cattolica sul filone interpretato dalle cosiddette terze vie del new labour e new democrats.
Non mi interessa qui un giudizio qualitativo su quel percorso, mi limito a rilevare, in buona compagnia, che quella sintesi si concretizzava in una versione di sinistra di un sostanziale ribaltamento del keynesismo, ossia della spesa pubblica sul lato dell’offerta anziché della domanda, che nelle sinistre socialiste euroatlantiche, a partire dagli anni 90, prende la forma di workfare come superamento del tradizionale welfare. Quella ipotesi, che posava su un impianto ordoliberista centrato sul contenimento dei salari rispetto ai profitti e il taglio della spesa pubblica, stava già mostrando la corda all’inizio degli anni 10 con l’emergere di una potenza economica come la Cina, che da fabbrica del mondo si è trasformata in superpotenza tecnologica e protagonista dell’ultima rivoluzione industriale fondata sull’intelligenza artificiale. Il nuovo assetto multipolare stava in altri termini già rendendo obsoleta l’ipocrisia di un’economia fondata esclusivamente sulla “libera concorrenza” degli attori privati (ipocrisia perché vivaddio gli stati e gli USA su tutti, si sono sempre conservati ampi spazi di intervento pubblico in determinati settori strategici, a partire dall’industria militare).
Quando arriva la pandemia il mito neoliberista ispirato a Hayek, Mises e Friedman, crolla come un castello di carta e se la vecchia Europa mette a regime la BCE nel ruolo di prestatore di ultima istanza, infrangendo dogmi fino a pochi mesi prima indiscussi, gli Stati Uniti aprono i cordoni delle borse immettendo una tale quantità di investimenti pubblici nell’economia da fari impallidire tanto le cifre ipotizzate dal nostro lato dell’Atlantico, quanto il glorioso New Deal.
Ecco, per farla breve è questa la pietra di inciampo del PD, che sconta, soprattutto nel suo attuale gruppo parlamentare (che definire determinante nel concretizzarsi della linea politica complessiva sarebbe addirittura un eufemismo) non tanto l’assenza di un’identità, se vogliamo usare questa categoria, ma la sopravvivenza di un’identità superata fragorosamente dagli eventi.
Sostengo che il problema sia questo “incastro diacronico” perché se invece si guarda l’evoluzione complessiva del centrosinistra (senza il quale il PD è addirittura impensabile) a partire dai primi anni 10 e in particolare dall’esplosione del fenomeno M5S, emerge un quadro di graduale riassestamento intorno ai nuovi soggetti del blocco storico progressista, composto da pensionati, lavoratori dipendenti legati alle organizzazioni tradizionali del movimento operaio e le nuove generazioni disperse nelle praterie del lavoro immateriale-intellettuale mediamente sottopagato.
Questo blocco storico non è solo rintracciabile nello studio dei flussi elettorali condotto da importanti centri di ricerca demoscopica come l’Istituto Cattaneo, ma si è manifestato concretamente nei movimenti ambientalisti con una marcata identificazione generazionale, come Friday For Future, in cui a scendere in piazza è stata la cosiddetta Z Generation, e nei movimenti civici e antifascisti come le Sardine, che ha dato voce prevalentemente ai Millenials.
In altri termini il mio punto di dissenso rispetto alla lettura che offre Bertinotti del PD verte su due assunti: il blocco sociale e le relative istanze politiche esistono e si manifestano, e soprattutto votano le coalizioni di centrosinistra, ma il centrosinistra politico e il PD in particolare non riescono da darne una rappresentanza adeguata per un legame anacronistico ad una ideologia superata, che per quanto non esaurisca assolutamente il corpo militante e dirigente è ancora troppo influente e fa da zavorra.

C’è poi una seconda parte del ragionamento a mio avviso non meno interessante e sicuramente collegata alle riflessioni sul rapporto tra Partito e movimenti sociali che invece Bertinotti centra appieno: il tema della lotta di classe.
Bertinotti sostiene, a ragione, che non esista un’ipotesi riformista senza un legame col conflitto sociale, giacché si assume che ogni ipotesi riformista sia la mediazione, più o meno avanzata, delle istanze della società civile; parafrasando Gramsci, il riformismo è la società civile che assurge a società politica facendosi legislatore.
In questo senso gli esempi si sprecano e ci toccano fino all’attualità che ci è più prossima nella forma del dibattito sul ddl Zan: non appaia eccessivo il riferimento alla categoria della lotta di classe, giacché è storicamente vero che il movimento femminista contemporaneo e il movimento LGBTQ sono tra i frutti più maturi del movimento operaio novecentesco, insieme all’ecologismo e al movimento antirazzista, che intreccia i temi nazionali del controllo del mercato del lavoro e internazionali degli effetti delle guerre neocoloniali. Nessuna di queste istanze potrebbe ambire a farsi “società politica” senza passare per la conflittualità sociale, ossia essenzialmente con la contestazione dello stato di cose presente.

Il PD ha una base sociale ed elettorale che si riconosce in larghissima parte nelle istanze più avanzate della lotta politica; sarebbe un peccato se per la timidezza di darle voce, per chiuderla con la nota battuta, dovesse pensare di “cambiare elettori”.

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