Bersani: se il Pd torna di sinistra rientro anche domani mattina

Sinistra

Colloquio con La Stampa

di Niccolò Carratelli

Pierluigi Bersani è pronto a tornare a casa. «Rientro nel Partito democratico anche domani mattina- dice l’ex segretario, ora in Articolo Uno – a patto che si dia il profilo di una moderna sinistra di combattimento». Perché il nostro panorama politico, «tutto quello che stiamo vedendo, anche negli ultimi giorni, conferma che in Italia c’è uno spazio oggettivo per una grande forza laburista». Insomma, serve «un’iniziativa – avverte Bersani – per richiamare gente che ha perso il nostro segnale radar e che può essere recuperata solo assumendo un’identità». Che sia fondata sul tema del lavoro, della precarietà, dell’emergenza sociale. Sul come procedere, Bersani ha un’idea precisa, che trasforma in un appello a Enrico Letta. «A lui chiedo di impegnarsi su quattro punti: una legge sulla rappresentanza, la contrattazione e il salario minimo; un intervento per sfoltire i contratti di precarietà e far utilizzare alle imprese lo strumento della formazione-lavoro; una legge sulla parità salariale uomo-donna; la previsione di un obbligo di formazione in tutti i contratti di lavoro».

Ecco la piattaforma bersaniana messa sul tavolo del segretario dem: «E non deve essere cotta e mangiata tra noi – aggiunge – ma aperta a tutti. Se Letta fa suoi questi quattro punti, noi ci stiamo domani mattina». Ma, già che ci siamo, «per farmi rientrare più contento potrebbe aggiungere una decente riforma fiscale». Basata su proposte chiare: «Aliquote progressive alla tedesca, generalità dell’imposizione, a parità di guadagni e tasse, e una seria lotta all’evasione fiscale». Fine della lista, a queste condizioni il ritorno a casa è possibile, anzi necessario.

Anche perché «facendo solo una somma tra noi, il Pd e mettiamoci pure Italia Viva, in Parlamento siamo il 20%: ammucchiandoci non risolviamo niente». Ospite di Metropolis, la trasmissione online condotta da Gerardo Greco sui siti del gruppo Gedi, Bersani ricorda quando, prima della nascita del Pd, lui ed Enrico Letta (uno nei Ds, l’altro nella Margherita), fecero insieme il giro di 27 distratti industriali, «perché volevamo una cosa nuova, uscendo dalla sindrome dell’autosufficienza».

La speranza, che non riguarda solo il Pd, è che i partiti «prima delle elezioni sentano il bisogno di fare un congresso e darsi un profilo, per recuperare un minimo di affezione dell’elettorato». Insomma, non è cambiando la legge elettorale che si risolve il problema. Anche se una modifica in senso proporzionale servirebbe, spiega Bersani, visto che «il nostro meccanismo è fatto apposta per moltiplicare il trasformismo: ci si mette insieme per vincere, non per governare». Non è un caso se in questa legislatura «abbiamo avuto tre maggioranze diverse e speriamo che da qui a fine anno non ce ne sia una quarta». Del resto, «tolto il Regno Unito e la Francia, tutti i paesi europei hanno sistemi proporzionali, seppur variamente corretti».

Ma, prima di discutere di soglie e sbarramenti, «i partiti devono metterci la faccia, dire agli elettori “io sono questo”». E il primo che deve farlo, probabilmente, è il Movimento 5 stelle: «Il problema della mancanza di identità vale per tutti, ma per loro è al diapason, sono nei guai esattamente per questo motivo», dice Bersani. E legge a modo suo il post di Beppe Grillo sulla lite interna tra Conte e Di Maio: «Il senso mi sembra sia: state uniti, andate dietro a Conte e non rompete troppo…». Proprio all’ex premier, nel momento di maggiore difficoltà, Bersani conferma la sua stima, perché «per lui non ci può essere la “damnatio memoriae”. Ricordo che il suo governo ha deciso il lockdown, per primo in Occidente, ha trovato i soldi del Recovery in Europa, ha fatto l’accordo con i sindacati per tenere aperte le fabbriche nell’emergenza».

Ora, però, c’è Draghi, «di cui ho un’enorme stima – dice Bersani – ma pensavo fin dall’inizio che spostarlo al Quirinale avrebbe provocato una situazione di ingovernabilità, uno scossone che non potevamo permetterci». Sulla partita del Colle abbiamo assistito a «una zingarata, allo spettacolo di un’orchestra felliniana – ironizza – ma poi, come capita in molte vicende italiche, alla fine si fanno scelte responsabili». E quindi, Draghi a palazzo Chigi, Mattarella al Quirinale e Amato alla Corte costituzionale: «Ora ci troviamo con questi tre bei pilastri – è la considerazione – ma il resto è da fare, bisogna affrontare la debolezza del nostro sistema politico». Che non scopriamo oggi: «Se il 40% delle persone non va a votare, c’è un problema più di fondo, che va considerato – conclude – è un sistema che va ricostruito daccapo».