La giornata mondiale degli ultimissimi: i disabili, soprattutto se poveri

Società

di Barbara Scaramucci (tratto da Articolo21)- Un miliardo nel mondo, quasi 3 milioni e mezzo in Italia con accanto oltre 7 milioni di caregiver familiari. Sono le aride cifre che stanno dietro alla giornata di oggi, dedicata dalle Nazioni Unite esattamente 30 anni fa, alle persone affette da qualche disabilità, fisica o psichica, totalmente o parzialmente invalidante.

Secondo il Rapporto mondiale dell’OMS sulla disabilità, il 15% della popolazione mondiale è portatrice di qualche forma di disabilità. L’80% di queste vive nei Paesi a più basso reddito. Si stima, inoltre, che circa 450 milioni di individui vivano una condizione di disabilità mentale o neurologica e due terzi di essi non fruiscano di assistenza medica professionale, in gran parte a causa di discriminazione e abbandono.

Secondo gli ultimi aggiornamenti dell’Istat, in Italia, le persone disabili sono ben più di tre milioni, pari al 5,2% della popolazione. 1,5 milioni di queste – nella maggior parte dei casi con 75 anni e più – vivono quotidianamente con gravi limitazioni. Infine, sei disabili su dieci nel nostro Paese sono donne; una differenza di genere che si amplia tra gli ultrasessantacinquenni.

Cosa significhi ogni giorno vivere da disabile lo sa solo chi lo è, le cause sono moltissime, tutte diverse fra loro, la reazione del corpo e del cervello di ognuno di noi cambia da individuo a individuo, ma alcune precise difficoltà sono sostanzialmente uguali per tutti.

La prima è il rapporto con gli altri. Sentire la futura presidente del consiglio parlare di “devianze” e indicare nello sport e nella forma fisica il modello da seguire non è il massimo per chi, per esempio, fatica a portare il cibo alla bocca come scalasse una montagna. Tanto per dire. La maggior parte degli invalidi riconosciuti in Italia dall’Inps è parzialmente o totalmente non autosufficiente, perché si tratta di anziani, visto che siamo una popolazione molto avanti negli anni, di malati che affrontano terapie faticose come quelle oncologiche, di persone colpite da malattie neurologiche, purtroppo in costante aumento, che attaccano il fisico e il cervello.

Rincuora vedere come tanti giovani sfortunati partecipino con successo alle paralimpiadi e riescano a vivere con serenità la loro invalidità. Tuttavia quella è una esigua minoranza, per una meravigliosa Bepe Vio ci sono centinaia di giovani adulti e soprattutto adulte, soli, con famiglie disgregate e senza o con pochi mezzi, che affrontano traversie burocratiche, barriere mentali e architettoniche, scontri continui con la sanità pubblica in preda ad una frenesia amministrativa che un disabile non può affrontare e risolvere. Provate a fare un semplice SPID ad un a persona che non può lasciare la propria abitazione…

Una miriade di ottime associazioni combate ogni giorno per i diritti dei disabili e di chi li assiste, ma spesso perde. Vorrei porre a chi legge una domanda brutta e aspra: siamo sicuri che quelle persone, molte non terminali, che scelgono di essere aiutate ad andare in Svizzera a morire farebbero egualmente questa scelta se ricevessero nella loro casa la giusta assistenza dalla sanità pubblica?

E ora un dato accertato: gli invalidi non autosufficienti che si curano a casa circondati dalla famiglia e con i dovuti aiuti sanitari hanno mediamente una aspettativa di vita di 5 anni in più rispetto a chi viene ricoverato negli istituti o vive da solo con i soli aiuti che può fornire oggi una ASL sul territorio.

La tragedia delle RSA durante la pandemia di Covid, che prosegue ancora oggi visto che è lì che ci sono ancora tanti focolai della malattia, è la tragedia di una sanità che ha continuato a dirsi la migliore del mondo ma ha messo i più fragili ad aspettare di morire quasi sempre in strutture inadeguate e che, a volte, finiscono anche per essere luoghi di abusi e di reati.

Ancora una volta sono emarginati i poveri. Chi ha solo quella soluzione e per disperazione la accetta, non può scegliere, non può pagarsi il di più che serve per stare dignitosamente. Alcune regioni benemerite hanno negli ultimi anni istituito l’assegno di cura, basato ovviamente sul reddito, e con quello qualche famiglia si sta salvando, riesce a organizzare a domicilio un’assistenza più adeguata al congiunto disabile. E alcuni istituti di eccellenza accessibili a tutti ci sono, ma si contano sulle dita delle mani. E spesso dobbiamo ringraziare i colleghi che sui media li valorizzano e di queste tematiche cercano di parlare sulla base di dati e di inchieste.

Questa giornata avrà un valore se chi ne ha la responsabilità prenderà impegni cogenti e concreti per mettere le mani su questo aspetto totalmente trascurato ancora oggi, 30 anni dopo la prima celebrazione. Far vivere meglio chi è colpito dalla tragedia della disabilità e le loro famiglie non è una questione di colore politico, è una semplice questione di umanità.